Tesi di Laurea di Veronica Fumarola


Ringrazio  Veronica Fumarola che ha voluto ricordarmi nella sua Tesi di Laurea.

Il calcio raccontato dalle donne

Il calcio si vive di giorno, di notte, ogni volta che ci pensi,

prima della partita, in campo e anche quando è finita.

Il calcio è una scelta di vita, più forte di noi.

Chi vive di calcio lo vive ogni momento.

(Federico Buffa, Sky Sport)

INDICE

INTRODUZIONE  5

CAPITOLO 1

STORIA DEL GIORNALISMO SPORTIVO: DAI PRIMI BOLLETTINI      ALLE PIÙ NOTE TRASMISSIONI TELEVISIVE   19

I PRIMI BOLLETTINI  9

  1. LA «GAZZETTA DELLO SPORT» 11
  2. IL PERIODO FASCISTA: LO SPORT E I GIORNALI SPORTIVI 12
  3. IL DOPOGUERRA: LA NASCITA DI «TUTTOSPORT» E «STADIO» 13                                                                                                                                                                                                                                                                                             
  4. BRUNO ROGHI E GIANNI BRERA: DUE MODI DIVERSI DI RACCONTARE IL CALCIO   14

5.1 Alcuni dei termini ancora in uso nel linguaggio sportivo odierno   16

  1. RADIO E TV 19

6.1 Le prime radiocronache  20

6.2 I primi radiocronisti e telecronisti che hanno fatto la storia  21

6.3 «La Domenica Sportiva»: la trasmissione più longeva della tv italiana  23

6.4 Le prime problematiche calcio-tv  25

6.5 «Tutto il calcio minuto per minuto»  25

6.6 «90° minuto»  26

6.7 La tv di Capodistria  28

6.8 Telemontecarlo: «Puntosport» e «Galagoal»  29

6.9 «Domenica Sport» e «Diretta Sport»  30

6.10 L’apertura al calcio europeo: «Eurogol»  30

6.11«Il Processo del Lunedì»  30

6.12 Mediaset: dai primi programmi sportivi a oggi 31

6.13 «Quelli che il calcio»  34

6.14 La pat per view: Sky e Mediaset Premium   35

  1. IL CALCIO: FENOMENOLOGIA E SPETTACOLARIZZAZIONE 36

CAPITOLO 2 

DONNE E GIORNALISMO: UN DIFFICILE PERCORSO DI EMANCIPAZIONE   39

  1. LE PRIME DIFFICOLTÀ 39
  2. LE EVOLUZIONI DEGLI ANNI SETTANTA 40
  3. ANNI OTTANTA E NOVANTA 42
  4. ANNI DUEMILA 43

4.1 Ancora “questione di settori”?  45

4.2 Le donne e il giornalismo nportivo: analisi dell’incontro tenutosi al Festival Internazionale del Giornalismo di Perugia (aprile 2015) 46

CAPITOLO 3

ROSANNA MARANI: LA PRIMA DONNA A SCRIVERE PER LA «GAZZETTA DELLO SPORT»  51

CAPITOLO 4

I VOLTI NOTI DELLE PRINCIPALI EMITTENTI TELEVISIVE   59

  1. MIKAELA CALCAGNO: LA “REGINA” DI MEDIASET PREMIUM 60
  2. BEATRICE GHEZZI: LA DONNA DEL TG SPORTIVO 64
  3. SIMONA ROLANDI: LA GAVETTA, LA SCUOLA DI PERUGIA E LA RAI 68
  4. MONICA VANALI: I TG SPORTIVI, I POSTICIPI E LA NAZIONALE 74

CAPITOLO 5

RADIOCRONACA E TELECRONACA AL FEMMINILE   81

  1. 1. NICOLETTA GRIFONI: LA PRIMA VOCE FEMMINILE DI «TUTTO IL CALCIO MINUTO PER MINUTO» 82
  2. SARA MEINI: LA NUOVA VOCE DI «TUTTO IL CALCIO MINUTO PER MINUTO» 87
  3. GAIA BRUNELLI E LA TELECRONACA 90

CONCLUSIONI  95

RINGRAZIAMENTI  105

BIBLIOGRAFIA   107

SITOGRAFIA   109

INTERVISTE   111

 

INTRODUZIONE

Una bambina appassionata di giornalismo che segue le partite della sua squadra del cuore e tutte le trasmissioni sportive che vanno in onda in tv, da «90° minuto», alla «Domenica Sportiva», a «Controcampo», fino al quotidiano appuntamento con «Studio Sport» all’ora di pranzo, appena tornata da scuola. Sono questi gli unici elementi alla base del mio lavoro: il giornalismo, il calcio e la forte passione che ho sempre nutrito nei loro confronti.

Arrivata alla fine del mio percorso di studi, ho pensato che nessun argomento mi avrebbe dato più soddisfazione di quello di cui ho sempre desiderato occuparmi, il giornalismo sportivo. Così mi sono rivolta alle donne, a quelle che ho seguito fin da quando ero piccola e che seguo ancora oggi, e a quelle che hanno fatto la storia in questo settore.

Ho perseguito un unico obiettivo: dare loro voce, indagare aspetti e contraddizioni del mestiere per capire quanto sia difficile affermarsi come giornaliste e combattere contro i pregiudizi di un mondo, quello del calcio, prevalentemente composto da uomini che pensavano, e pensano ancor oggi, che la donna non sia in grado di capire nemmeno cosa sia un fuorigioco. Invece non è così: alcune donne amano il calcio, l’hanno sempre seguito e ci hanno perfino giocato fino al punto di fare della loro passione un lavoro.

Non bastava, però, far parlare solo figure competenti ed esperte; era necessario inserire un’analisi storica riguardante sia l’evoluzione del giornalismo sportivo sia le difficoltà che le donne hanno da sempre incontrato in questo mondo per affermarsi. Sono partita dagli albori per arrivare fino ai giorni nostri: oggi le donne alla conduzione di programmi sportivi sono sempre più e sembrano voler farsi spazio in un settore tutto nuovo, quello della telecronaca. La società sarà pronta per questo cambiamento? Questa è solo una delle domande poste alle varie giornaliste intervistate.

Attraverso le loro parole, le loro esperienze e le loro considerazioni, ho cercato di trarre delle conclusioni relative ai mutamenti e ai progressi che ci sono stati, alle discriminazioni di cui sono state e sono ancora vittime e a quale strada sia necessario intraprendere per affermarsi e svolgere al meglio il proprio lavoro dimostrando di essere persone competenti in materia calcistica, pur essendo donne.

Nel primo capitolo viene ripercorsa la storia del giornalismo sportivo, dai primi bollettini fino alla pay tv. Un’evoluzione che parte dalla carta stampata e dalla fondazione di quotidiani sportivi come «La Gazzetta dello Sport», «Il Corriere dello Sport» e arriva all’introduzione di radio, tv e pay per view. Una trasmissione come «Tutto il calcio minuto per minuto» ha segnato il mondo del calcio ed è nei cuori di tutti quei ragazzi, oggi ormai quasi nonni, che non potevano andare allo stadio e si affidavano ai radiocronisti Rai per essere informati sulle sorti della squadra del cuore. Ma è la tv ad aver rivoluzionato il rapporto con questo sport: dall’affluenza agli stadi alle problematiche dei diritti, fino alla contemporanea “guerra” tra le emittenti private Sky e Mediaset. Questo e molto altro viene analizzato nelle prime pagine.

Nel secondo capitolo, affidandomi alle costanti ricerche della sociologa Milly Buonanno, che da sempre si occupa dello studio di genere nel mondo del giornalismo, ho analizzato le problematiche che hanno dovuto affrontare e superare le donne per affermarsi come giornaliste. Vi sono riferimenti alla carta stampata, al giornalismo televisivo e, in particolare, al giornalismo sportivo. Ci sono voluti anni e i movimenti di emancipazione per permettere loro di allontanarsi dall’unico settore concesso, quello dello spettacolo e della moda, e cimentarsi nella politica, nella cronaca e nello sport.

Nel terzo capitolo si parla proprio della prima donna che si è affermata nel giornalismo sportivo: si tratta di Rosanna Marani la quale, nel 1973, riesce a far pubblicare un suo articolo sul più famoso quotidiano sportivo nazionale, «La Gazzetta dello sport». A un breve racconto della sua storia segue un’intervista, frutto della nostra chiacchierata telefonica. Ripercorre gli inizi, le speranze, le delusioni e le soddisfazioni della sua carriera, augurandosi un futuro sempre più “rosa” per il giornalismo sportivo.

I temi alla base del quarto capitolo sono la televisione e il binomio bellezza-competenza. Molti uomini sostengono che alcune ragazze siano scelte più per il loro aspetto fisico che per la loro conoscenza del calcio. Ho intervistato Mikalea Calcagno, Beatrice Ghezzi, Monica Vanali e Simona Rolandi, giornaliste sportive televisive per far raccontare loro come funzioni il mondo della tv e quali siano le qualità necessarie per lavorare nell’ambiente sportivo e raggiungere il successo. Inviate, conduttrici e redattrici: profili volutamente diversi per un quadro completo delle varie sfaccettature di questo mestiere.

Nel quinto e ultimo capitolo, invece, l’attenzione si sposta sul mondo della telecronaca e della radiocronaca. I due mezzi di comunicazione, che hanno permesso di seguire le partite di calcio prima dell’avvento della tecnologia e della pay per view, sono stati sempre appannaggio degli uomini, almeno fino al 1988, anno in cui Nicoletta Grifoni è entrata a far parte della redazione di «Tutto il calcio minuto per minuto». Allora una presenza femminile rappresentava una grande novità e per lungo tempo Nicoletta è rimasta un unicum. Solo dal 2012 è riapparsa, con continuità, all’interno della storica trasmissione radiofonica, la voce di una donna, quella di Sara Meini che, nelle pagine a lei dedicate, parla della sua esperienza e dell’amore che nutre nei confronti di questo lavoro. Il mondo della telecronaca, invece, appare ancor più complesso e più reticente verso l’universo femminile. A testimoniarlo è Gaia Brunelli, attualmente la sola a cui sia stato affidato, in tv, un ruolo costante come telecronista.

 

CAPITOLO 1

STORIA DEL GIORNALISMO SPORTIVO: DAI PRIMI BOLLETTINI ALLE PIÙ NOTE TRASMISSIONI TELEVISIVE

1.   I PRIMI BOLLETTINI

Il «Bollettino Trimestrale del Club Alpino di Torino», nato nel 1865, è il primo fac-simile di stampa sportiva in Italia, nonché una delle riviste di alpinismo più antiche al mondo. È costituito da un foglio di piccolo formato: poche pagine divise in due colonne, in cui si racconta quanto già accaduto esaltando la purezza racchiusa nello scalare le montagne.

Nel 1866, invece, a Livorno esce il primo numero de «La Ginnastica»: è un quindicinale di quattro pagine divise sempre in due colonne. Nello stesso anno nasce anche «La Palestra». Nel 1870, a Genova, viene pubblicato «Lo Sport», organo ufficiale della prima società italiana di vela, il Regio Yacht Club d’Italia.

Queste prime pubblicazioni hanno le caratteristiche del bollettino e hanno anche diversi elementi in comune: sono rivolti a una cerchia ristretta di persone e si occupano di un ambito specifico, ovvero fanno capo ad associazioni per appassionati di uno sport in particolare.

Negli anni successivi i giornali sportivi si diffondono ulteriormente: nel 1875 esce «La Rivista degli Scacchi» a Livorno; nel 1881 nascono a Milano l’«Eco dello sport» e «Lo Sport Illustrato». Quest’ultimo, però, tralascia le informazioni sportive a vantaggio di resoconti su rappresentazioni teatrali, racconti e saggi.

Nonostante questi primi periodici, bisogna comunque lamentare un ritardo nella divulgazione della stampa sportiva in Italia dovuto, come sottolinea Aldo Biscardi[1] nella sua storia del giornalismo sportivo,[2] a una bassa diffusione delle pratiche sportive e allo scarso sviluppo dello sport e delle associazioni stesse. Altro motivo è da ricercarsi, invece, nella situazione complessiva della stampa di informazione dell’Italia del tempo: una quantità notevole di testate locali, tirature molto basse e alta politicizzazione sono le caratteristiche della carta stampata durante gli anni dell’Unità. Essendo quella sportivo un settore specialistico, di nicchia, esso si rivolge essenzialmente, soprattutto all’inizio, a una cerchia di lettori specializzati, a insegnanti o a persone che praticano sport. In questi primi bollettini manca una caratteristica della stampa sportiva attuale: il commento; senza questo non viene posto l’accento sul fattore spettacolare-visivo dell’evento.

Altro dato da sottolineare in questi anni, che influenza e limita la diffusione dei bollettini, soprattutto sportivi, è l’analfabetismo degli italiani. Dal primo censimento sull’alfabetizzazione, di cui parla Tullio De Mauro e che risale al 1861, risulta che il 78% degli italiani è analfabeta: questo determina una scarsa abitudine alla lettura, ma anche una certa difficoltà a comprendere un linguaggio specifico quale quello sportivo, fatto di termini inusuali, scarsamente utilizzati dalla popolazione.

Bisognerà aspettare qualche anno per vedere dei cambiamenti: solo l’industrializzazione, l’urbanizzazione, la diminuzione dell’analfabetismo faciliteranno una maggiore diffusione della stampa sportiva, che vedrà un’ulteriore evoluzione: i bollettini locali diminuiranno a vantaggio di poche testate a diffusione nazionale. Precedentemente alla nascita della «Gazzetta dello Sport», avvenuta nel 1896, i quotidiani iniziano prima a inserire nelle loro pagine poche righe di cronaca sportiva e poi, piano piano, ampliano lo spazio dedicato alle informazioni sullo sport perché queste rappresentano un mezzo per aumentare le tirature. Come afferma Gian Paolo Ormezzano[3] nel suo saggio La stampa sportiva, «alla fine dell’Ottocento lo sport ha già trovato una collocazione chiara, pur se non ancora importante, nel panorama della stampa nazionale. C’è anche l’apparizione dello sport nelle pagine dei periodici e dei quotidiani che potremmo definire politici, pur se allora erano detti di “attualità”».[4]

2.   LA «GAZZETTA DELLO SPORT»

La «Gazzetta dello Sport» nasce nel 1896 dalla fusione tra «Il Ciclista»[5] e la «Tripletta»[6] sotto la direzione del duo Eliseo Rivera e Eugenio Camillo Costamagna. La prima data di pubblicazione risale al 3 aprile 1986: si tratta di una pubblicazione stampata su carta verde costituita da quattro pagine, che hanno il formato di un quotidiano e sono divise in cinque colonne. Sulla prima pagina sono riportati i nomi delle tre testate (che scompariranno nel 1897, anno in cui il colore della carta cambia da verde a giallo). Nel 1899 la rivista assume un nuovo colore, il rosa, definitivo e ancora oggi in uso.

Le prime pubblicazioni sono previste per il lunedì e il venerdì: l’aumento degli avvenimenti sportivi permette al giornale di svilupparsi e di evolversi. Nel 1898, però, Rivera viene arrestato a causa della sua partecipazione ai moti popolari di protesta in atto in quello stesso anno a Milano e rinuncia alla direzione del periodico. Sempre nel 1898 viene avviata la pubblicazione del «Supplemento mensile illustrato» che arricchisce le notizie fornite dalla rivista raccontando le storie degli atleti.

Una data importante è rappresentata dal 1908, anno in cui «La Gazzetta» si svincola dal «Secolo», cambia sede, si trasferisce in via Santa Redegonda e diviene trisettimanale: alle uscite del lunedì e del venerdì si aggiunge quella del mercoledì.

Nata da una semplice concorrenza con un altro giornale, «La Gazzetta dello Sport», grazie alle iniziative promosse dalla redazione e alla concomitanza di eventi favorevoli, aumenta le tirature; si specializza nei contenuti, assume giornalisti sempre più preparati e organizza un numero sempre maggiore di eventi sportivi[7] che non fanno altro se  non far accrescere l’interesse per lo sport e le tirature de giornale. Nel 1913, infatti, si opta per la pubblicazione giornaliera che trasforma «La Gazzetta dello Sport» in un quotidiano, il più letto in Italia.[8]

3.   IL PERIODO FASCISTA: LO SPORT E I GIORNALI SPORTIVI

Contrariamente a quanto si possa pensare, il legame tra sport e fascismo fu un legame ben saldo che Mussolini cercò di curare al meglio sin dai primi tempi della sua ascesa al potere. Amante dello sport, il duce decise di servirsi di quest’ultimo anche per motivi di ordine politico:[9] lo sport rappresentava una forma di integrazione sociale; egli, infatti, aveva, permesso l’allargamento dell’accesso alle discipline sportive che fino ad allora erano solo appannaggio di una élite. Operò, dunque, in favore di una democratizzazione dello sport[10] e di un aumento delle gare sportive che servissero come preparazione alla guerra. «La Gazzetta dello Sport» si attiva in questo senso già nel periodo pre-bellico, ma durante il conflitto si distingue proprio per il suo fervore nazionalistico.

Lo sport visto in questi termini, ovvero finalizzato ai conflitti, deve anche essere espressione di disciplina e manifestazione di potenza. Come scrive Gian Paolo Ormezzano, «lo sport era visto come attività quasi esclusivamente muscolare: i sentimenti concessi ai suoi adepti, praticanti od osservatori, erano quelli primari, i più facili, dall’entusiasmo alla disperazione. Il lessico aveva da essere elementare, per una tribù di incolti. Nelle redazioni i giornalisti sportivi erano considerati poco e magari venivano presi in giro quando pretendevano di trasformare, per autodifesa, una trasferta al Tour de France in una spedizione dell’Africa Nera».[11] Al di là della concezione dello sport, quello che conta è il lavoro svolto dai giornalisti, ovvero dai “cantori”, così come li definisce il giornalista torinese. Siamo nel periodo detto da Ormezzano dell’amore,[12] quello in cui i giornali e i giornalisti sono gli stessi creatori delle manifestazioni che raccontano in maniera precisa, riportando le storie dei personaggi, le tematiche, le allegrie e le tristezze. A quel tempo i giornalisti andavano dietro gli atleti, spinti essenzialmente dal loro amore per lo sport.

Tornando ai dati, c’è da sottolineare, però, che è proprio durante questi anni che lo sport italiano raggiunge importanti traguardi: la vittoria di due mondiali di calcio, nel 1934 e nel 1938, la conquista di tre Giri di Francia, grandi trionfi alle Olimpiadi. Ai prestigiosi traguardi sportivi si aggiunge un grosso balzo in avanti della stampa sportiva: tra il 1931 e il 1934 nascono 44 nuove pubblicazioni e dopo il 1934, esattamente nel 1935, vedono la luce altre 15 testate sportive.[13]

Tra le principali testate sorte nel ventennio fascista si possono ricordare: «Il Trotto», «Il Trotto illustrato», «Il Canottaggio», «Il Calcio», tutti editi per la prima volta nel 1922 rispettivamente a Milano i primi due e a Torino i restanti due. Nel 1923, invece, sorgono a Roma «Il Ring», «Rugby» e nel 1924 «Il Cavallo Italiano»; sempre nel 1924, a Milano, nascono «Lo Scarpone», «La Motonautica» e «La Boxe illustrata». La diffusione delle testate sportive vede protagoniste anche le città del sud Italia: a Bari nel 1923 viene pubblicato «Il Mezzogiorno Sportivo», un settimanale al quale segue il bisettimanale «Il Sud Sportivo». A Messina nel 1937 nasce la «Gazzetta del Lunedì» mentre, nello stesso anno, a Trapani, viene pubblicata «La Palestra». L’amore per lo sport cresce sempre più negli anni: l’Italia, seppur dilaniata dalla guerra, fa riaccendere il suo entusiasmo e vede nella stampa sportiva il luogo dei buoni sentimenti.

4.   DOPOGUERRA: LA NASCITA DI «TUTTOSPORT» E «STADIO»

Nell’immediato dopoguerra si assiste alla nascita di altri due nuovi quotidiani sportivi che si aggiungono alla «Gazzetta dello Sport» e al «Il Littorale» (divenuto poi «Il Corriere dello Sport»). Nel 1945 nasce a Bologna il settimanale «Stadio», fondato da Luigi Chierici e Remo Roveri, che nel 1951 si trasforma in quotidiano. Sempre nel 1945, a Torino, viene pubblicato per la prima volta  «Tuttosport»: la rivista torinese vede la luce per volontà di Renato Casalbore[14] che opta dapprima per una cadenza bisettimanale (ma già dal 1946 si parlerà di trisettimanale). Nel 1951 anche «Tuttosport» diviene un quotidiano. La peculiarità di questo giornale è quella di dedicarsi prevalentemente al Centro-Nord e, in particolare, alle due squadre della città, Juventus e Torino.

Il quotidiano bolognese, invece, acquista sempre maggiore autorevolezza negli anni riuscendo ad affermarsi anche oltre i confini emiliani: è in grado di competere con le altre tre grandi testate sportive italiane, «Gazzetta dello Sport», «Tuttosport» e «Corriere dello Sport».[15] Proprio con quest’ultimo nel 1977 ci fu una fusione. L’editore del giornale, Francesco Amodei, ha l’ambizione di far competere il «Corriere dello Sport» con la «Gazzetta dello Sport» nel nord Italia; decide così di rilevare il quotidiano bolognese «Stadio» e di avviare una fusione. Il nuovo giornale assume il nome di «Corriere dello Sport-Stadio» e raggiunge l’obiettivo sperato, quello di aumentare il numero di lettori a livello nazionale. Ancora oggi è tra i quotidiani sportivi italiani più importanti.

5.   BRUNO ROGHI E GIANNI BRERA: DUE MODI DIVERSI DI RACCONTARE IL CALCIO

Il linguaggio sportivo compie un lungo cammino nel corso degli anni: all’inizio sembra non differenziarsi dal linguaggio giornalistico generale, ma con il passare degli anni diviene sempre più tecnico e preciso. È giusto partire dagli “albori” e quindi dal periodo successivo all’Unità: la lingua italiana, da sempre lingua prevalentemente, se non esclusivamente letteraria, resta una lingua d’élite, poco conosciuta e poco usata dal popolo. Il linguaggio sportivo, necessitando di termini tecnici, deve usare forestierismi e prendere in prestito espressioni da altre lingue, in particolare l’inglese. Nei primi anni lo sport è affare solo di specialisti, di gente esperta e del settore in grado anche di usare e recepire termini di uso non comune.

Dopo questo primo periodo bisogna fare i conti con il Fascismo e con la volontà di epurazione da parte del duce: non è concesso l’utilizzo di alcun termine straniero. Nel frattempo migliora anche la situazione linguistica italiana: si va formando pian piano una lingua parlata unitaria. Lo sport, grazie anche alla politica fascista di cui si è parlato precedentemente, acquista sempre più valore: non è più rivolto a una cerchia ristretta ma si apre all’intera popolazione, anche se la sua ricezione dipende molto dal livello di alfabetizzazione di ogni singolo individuo.

Radio e tv, infine, hanno dato il loro grande contributo: non solo hanno permesso una maggiore diffusione e conoscenza dei vari sport, ma hanno contribuito a un miglioramento e a un’evoluzione del linguaggio sportivo, passando dalla semplice cronaca dell’evento sportivo all’analisi critica dello stesso. Quest’ultimo richiedeva (e richiede) l’apporto di scrittori e persone note in grado utilizzare al meglio la lingua italiana e capaci di sviluppare un particolare tipo di linguaggio. A questo proposito due sono gli uomini che per primi sono stati in grado di segnare, se non formare, il linguaggio sportivo italiano: Bruno Roghi e Gianni Brera.

Bruno Roghi nasce il 24 aprile del 1894 a Sanguinetto di Verona. Esordisce nel giornalismo nel 1924 ed è redattore presso la «Gazzetta dello Sport» fino al 1936, anno in cui ne diviene il direttore. Dirige in seguito anche «Tuttosport» e il «Corriere dello Sport» e collabora con tutte le riviste sportive italiane. È lui, come scrive Biscardi nella sua storia del giornalismo italiano, a «raccogliere in Italia l’eredità dei vecchi cantori greci e romani […]. È l’alfiere impareggiabile, erudito e classico della schiera degli aedi moderni».[16] Roghi fu un convinto nazionalista e, anche quando raccontava di grandi imprese sportive, prediligeva l’accostamento mitico e l’esaltazione della razza. Non si sforzava mai di analizzare o di soffermarsi su qualsiasi elemento che andasse oltre la gara, la prestazione disputata: tutto ruotava intorno all’accostamento mitico ed è per questo che si può ritenere un grande cantore di gesta.

Gianni Brera, invece, nasce a San Zenone al Po l’8 settembre 1919. A soli trentuno anni, nel 1950, diviene direttore responsabile della «Gazzetta dello Sport». A differenza di Roghi sceglie di raccontare ogni impresa con dovizia di particolari. Ogni evento sportivo viene diviso in una sequenza a rallentatore, ma anche il protagonista è soggetto a un’attenta analisi: vengono analizzate nei minimi particolari le sue caratteristiche fisiche, morali e sportive. Secondo Gian Paolo Ormezzano si deve a Brera la seconda stagione del giornalismo sportivo italiano, quella dell’erotismo,[17] fase in cui Brera è riuscito a coniugare al meglio la sua conoscenza dello sport alle sue spiccate doti da scrittore. È stato in grado, inoltre, di agganciare lo sport alla sociologia, alla gastronomia, alla storia e grazie alla sua bravura e al suo impegno il giornalismo sportivo ha acquisito maggiore rispettabilità.

Basta leggere il suo articolo successivo alla vittoria contro il Brasile nei quarti di finale del mondiale del 1982 per cogliere le sue grandi doti di scrittore e la sua capacità di creare associazioni al quanto originali. Rossi uno, due, tre ciao vecchio Brasil è il titolo del pezzo pubblicato su «Repubblica» il 6 luglio 1982, dal quale traspare tutta la meraviglia di un giornalista, inviato, di fronte a una vittoria così inaspettata. Brera racconta come la “sua” Italia sia stata tanto brava da far giocare i “campioni del mondo” illudendoli di essere i più forti in terra: quella italiana è una squadra che si unisce, che fa gruppo e che impedisce ai grandi del calcio di pareggiare per la terza volta i goal di Rossi. I brasiliani, però, sono testardi: tanto testardi da «perdere il color cioccolato o liquirizia e farsi lividi com’erano lividi i loro compagni bianchi». Un’associazione anomala, che “gioca” con il colore della pelle. L’originalità, come detto prima, sta nella capacità di associare ambiti completamente estranei tra loro, la cucina e lo sport, il calcio, con l’agonismo tipico di chi si sta giocando tutto, e gioca non solo per sé, ma per una nazione intera.

Nonostante la sua nota bravura, appena rievocata attraverso una piccola analisi di uno dei suoi articoli più celebri, Brera ha discusso con molti colleghi. Antonio Ghirelli[18] si annovera tra i suoi accaniti oppositori data la scelta di combattere il “tatticismo” del giornalista lombardo. Ghirelli, infatti, è stato anche l’artefice dei titoli aggressivi, della grafica dirompente e dei virgolettai urlati, nonché colui che ha introdotto la politica nei quotidiani sportivi.

5.1 ALCUNI DEI TERMINI ANCORA IN USO NEL LINGUAGGIO SPORTIVO ODIERNO

Il linguaggio calcistico moderno deve molto al lavoro di Gianni Brera e al suo stile davvero unico nel raccontare la cronaca sportiva: un linguaggio ricco e creativo, a metà tra il parlato e il letterario, che non voleva solamente parlare agli appassionati, ma anche sorprenderli e coinvolgerli. Proprio per questo le moderne telecronache calcistiche hanno mutuato tanto dal linguaggio del giornalista lombardo: il modo di commentare le partite dei telecronisti di oggi è, infatti, ricco di metafore, enfatico e avvincente.

Gianni Brera è riuscito ad arricchire ed elevare il vocabolario del calcio coniando termini e neologismi ricchi di inventiva e mai banali, tutt’ora presenti nel frasario sportivo e dati per consolidati. È riuscito a portare la cronaca sportiva al livello del racconto grazie alla passione vera e spasmodica con cui viveva il mondo del calcio. Per lui la partita diventa un fatto non solo da raccontare, ma un qualcosa di più, con cui vivere in una sorta di simbiosi: egli non si limita alla fredda cronaca, ma vive l’incontro visceralmente (come farebbe un tifoso), meravigliandosi, al pari di un bambino, di fronte a un gesto tecnico pregevole e arrivando al termine del suo articolo sfiancato, quasi al pari dei giocatori scesi in campo. Il passo finale del suo articolo redatto dopo la vittoria dell’Italia contro il Brasile, nei mondiali del 1982, è emblematico: «Pensare a domani è troppo presto. Io sono stremato per l’emozione e per l’ennesima conferma dell’imprevedibilità del calcio». Basterebbero queste poche righe per comprendere come il mestiere di giornalista non sia stato mai vissuto da lui come un lavoro, ma sia stato sempre caratterizzato da una relazione d’affetto, passione e ammirazione.

Il merito di Brera è anche quello di aver coniato dei neologismi che sono, di fatto, rimasti scolpiti nell’immaginario collettivo e che tutt’oggi vengono usati senza freno. Quello del giornalista lombardo appare agli occhi di tutti gli appassionati come un lascito, un’eredità preziosa e indelebile. Vediamo adesso alcuni termini che hanno fatto la storia, cercando di analizzare e capire l’inventiva ineguagliabile di Gianni Brera.

  • Centrocampista: è la fusione delle parole centro e campo e indica il giocatore che si trova a ricoprire un ruolo situato nella parte centrale del campo di gioco. Questo vocabolo è ormai da tempo di uso comune nel gergo del calcio, ma è stato coniato da Brera negli anni Cinquanta per l’esigenza di trovare un termine appropriato per definire bene questo ruolo. Centrocampista è il termine generico che poi si è evoluto e arricchito di ulteriori specificazioni, tutte frutto della mente di Brera: tra i centrocampisti appare così il regista, colui che detta i tempi di gioco alla squadra (come farebbe l’omonimo cinematografico con la sua troupe); la mezzala, ovvero il centrocampista intermedio (di solito schierato al fianco del regista) che gioca tra la fascia e il centro del campo; oppure, ancora, il mediano di spinta colui che, partendo da una posizione arretrata, avanza e sostiene la manovra offensiva.
  • Goleador: il termine deriva dall’incrocio di due forestierismi, dalla parola inglese goal e dal vocabolo spagnolo toreador (o matador). Il goleador è colui che di solito sigla reti di pregevole fattura. Questo neologismo è stato inventato da Brera traendo ispirazione dal torero che, dopo aver “giocato” con il toro, mette a segno una stoccata letale; lo stesso fa l’attaccante con la difesa avversaria prima di segnare la rete. Il giornalista lombardo ha utilizzato spesso questo termine per indicare gli attaccanti dotati di grande tecnica, come Pelè e Bettega.
  • Atipico: letteralmente significa al di fuori di ogni possibilità di classificazione. L’invenzione di Brera sta nel riservare questo aggettivo per quei giocatori (soprattutto attaccanti) che non hanno caratteristiche tecniche e di ruolo ben definite. Atipico, però, non è sinonimo di incapace, ma piuttosto di eclettico. Il termine viene utilizzato per indicare quei calciatori estrosi, con smodate doti individuali, solitamente insofferenti alla disciplina tattica. Nella concezione di Brera il calciatore atipico tende spesso a variare la sua posizione nel rettangolo di gioco, con una sorta di “anarchia” che lo rende imprevedibile per la squadra avversaria. Il più famoso atipico nelle sue cronache è stato Omar Sivori della Juventus; sembra che il giornalista abbia coniato il termine dopo averlo visto giocare.
  • Pretattica: è diventata una parola classica del gergo calcistico, la cui paternità è proprio di Gianni Brera. La pretattica è l’insieme delle azioni svolte da un allenatore nei giorni precedenti a una partita e si riferisce alla squadra o all’allenatore avversari: significa far intendere ai rivali una certa intenzione tattica, tramite dichiarazioni e interviste alla stampa, nel tentativo di indurli a studiare una contromossa. Spesso la pretattica serve solamente per creare confusione nelle idee dei rivali, oltre che per sviare il discorso da possibili polemiche destabilizzanti riferite alla propria squadra. Questo termine mette in luce tutta la lungimiranza di Brera nel capire che, nel mondo del calcio, la componente psicologica è tanto importante quanto quella tecnica.
  • Ciccare: Questa parola risente molto del dialettismo lombardo tanto caro a Brera. Il giornalista usa questo vocabolo per indicare un giocatore che, provando a colpire il pallone, lo manca in maniera vistosa ed eclatante, facendo una brutta figura. È una voce molto utilizzata in Lombardia che si rifà al termine cicca: un avanzo di sigaretta, qualcosa di mancato e incompiuto proprio come un’azione non finalizzata.

Con questi pochi esempi si può vedere come Gianni Brera abbia inventato un vero e proprio linguaggio del calcio, servendosi di codici di riferimento diversi: il giornalista spazia con disinvoltura dal dialettismo, con adattamenti fonetici, alle lingue straniere, utilizzando un registro linguistico sempre brillante ed evocativo, fatto di emozioni e immagini, a metà strada tra l’italiano popolare e quello letterario.

Leggendo i giornali di oggi si può notare come le invenzioni del grande maestro siano ancora vive e presenti. Una “sezione” che attinge molto dallo stile del giornalista lombardo è quella rappresentata dalle pagelle calcistiche: in questi piccoli testi si ritrovano tante influenze sia nei termini utilizzati sia nella vena brillante ed evocativa, tipica di chi giudica. Le pagelle post-partita sono un esempio lampante di come l’insegnamento di Brera sia stato interiorizzato e riadattato da parte delle generazioni che lo hanno seguito. Si leggono, infatti, termini come zuccata, incornata, anche essi molto utilizzati dalla penna lombarda; ritorna spesso ciccare molto gettonato quando i giornalisti odierni vogliono sottolineare un errore del giocatore, ma quel che più resta nelle pagelle è proprio la voglia di rievocare l’enfasi tipica degli articoli di Brera e il bisogno di raccontare alcune azioni a rallentatore, come fossero gesta eroiche, dipingendole non su un quadro, ma con combinazioni di parole.

6.   RADIO E TV

Il vero cambiamento nel giornalismo sportivo è stato dettato dall’introduzione dei due nuovi mezzi di comunicazione, la radio e la tv, ma è stata quest’ultima, in particolare, a influenzare e modificare il linguaggio sportivo nonché a rendere lo sport accessibile per chiunque. La televisione ha optato, soprattutto nei primi anni di vita, per un linguaggio comprensibile per tutti, dato l’elevato analfabetismo registrato ancora in Italia in quegli anni. Come ricordato precedentemente, infatti, il linguaggio sportivo era difficoltoso: molti restavano attoniti durante l’ascolto di radiocronache o telecronache a causa della mancata conoscenza di termini tecnici, tipici del linguaggio calcistico.

Anche se la televisione ha preso il sopravvento sulla radio (che è stata la prima a recuperare la contemporaneità dell’evento), bisogna riconoscere a quest’ultima notevoli progressi nello sport: ha dato vita a diverse iniziative, promosso dibattiti, polemiche e confronti. Una trasmissione su tutte resta nella storia e nel cuore degli italiani: «Tutto il calcio minuto per minuto; a questa si aggiunge, in ambito televisivo, «La Domenica sportiva»: insieme hanno permesso a molti tifosi, quando internet e la pay per view erano un miraggio, di restare aggiornati, di seguire la squadra del cuore e di ammirare i goal più belli. Fin da subito il calcio ha ricoperto un ruolo primario rispetto alle altre discipline nelle varie trasmissioni radio e tv, ma nel corso degli anni la televisione ha dato spazio anche al ciclismo, allo sci, agli sport olimpici e alla Formula Uno.

6.1 LE PRIME RADIOCRONACHE

Il primo evento sportivo raccontato in diretta dalla radio è il Mondiale dei pesi massimi tra Jack Dempsey e Georges Carpentier il 2 luglio 1921, mentre in Italia le prime trasmissioni radiofoniche vengono mandate in onda il 6 ottobre 1924. Alla Germania si deve, invece, la prima radiocronaca di una partita di calcio: il 18 aprile 1926 i tedeschi raccontano la sfida tra Germania e Olanda a Düsseldorf.

In Italia il primo evento raccontato in diretta da San Siro è il Gran Premio di Galoppo: era il 19 luglio 1927. Un anno dopo viene mandata in onda la prima radiocronaca di un evento di pugilato e allo stesso anno risale la prima radiocronaca di un match di calcio, quello tra Italia e Ungheria, giocato il 25 marzo allo stadio Flaminio di Roma.

All’inizio vengono raccontate solo le partite disputate dalla nazionale di calcio italiana: i club vengono esclusi perché si teme che gli stadi si svuotino. Nei primi anni Trenta le cose cambiano: dal 1933 ogni domenica i tifosi possono ascoltare la diretta di uno dei secondi tempi delle partite di serie A; solo le partite della Nazionale possono godere di una radiocronaca intera e proprio grazie agli Azzurri la voce di Nicolò Carosio diviene popolare.

6.2 I PRIMI RADIOCRONISTI E TELECRONISTI CHE HANNO FATTO LA STORIA

Il 15 maggio 1907 nasce a Palermo Nicolò Carosio, colui che ha dato vita alla radiocronaca sportiva, genere che prima di lui non esisteva. Venivano trasmessi programmi via radio, ma le notizie erano lette e i risultati delle partite venivano riportati senza che ci fosse un racconto dei vari incontri, delle azioni, di quello che accadeva in campo.

Come ricorda Massimo De Luca[19] in Carosio nascita di una leggenda[20] qualche episodio isolato di telecronaca c’era già stato. Infatti, alcune partite dell’Italia erano state raccontate e descritte radiofonicamente da Giuseppe Sabelli Fioretti prima e da Bruno Roghi e Renato Casalbore poi. Nulla a che vedere, però, con l’invenzione del giornalista palermitano: la sua idea nasce durante un suo soggiorno a Londra mentre ascolta in diretta i pensieri dell’allenatore dell’Arsenal. Quest’ultimo non parla delle azioni di gioco, ma lamenta gli errori tattici e gli sbagli dei suoi colleghi allenatori per poi concludere il suo discorso con una ripresa delle fasi salienti della partita. È proprio grazie a questo intervento che Carosio ha l’intuizione che ha rivoluzionato la storia del calcio narrato: è necessario raccontare la partita, far vivere all’ascoltatore le emozioni e le fasi salienti del match per poi concludere con i commenti relativi al match.

Dopo tante prove, e quando si sente pronto, presenta la sua idea a Emilio De Martino, uno dei principali giornalisti sportivi di quegli anni. Quest’ultimo scrive all’Eiar[21] che convoca Carosio per un colloquio il 27 aprile 1932. Colpisce e stupisce, ma il diretto interessato lo scopre a distanza di tempo, quando viene chiamato per alcune radiocronache di prova; successivamente gli viene assegnato il compito di raccontare in diretta il derby di Torino: inizia così la sua carriera da radiocronista che lo vede protagonista per circa quarant’anni, fino al 1971. Conquista gli italiani con il suo ritmo, il suo linguaggio e con il coinvolgimento emotivo: racconta le vittorie dell’Italia ai mondiali del 1934 e del 1938 per poi traghettare la cronaca anche al teleschermo: è annoverato, infatti, tra i primi telecronisti della storia della tv italiana.

Tra i primi radiocronisti va citato anche Carlo Bacarelli, conduttore, tra l’altro, del primo notiziario realizzato in Corso Sempione in occasione dell’inizio della fiera campionaria a Milano il 12 aprile 1952. È stato lui il telecronista, il 5 febbraio 1950, della prima partita trasmessa in televisione, Juventus-Milan, dopo aver commentato precedentemente vari incontri di boxe e di lotta libera a bordo del ring allestito nello studio C di Torino. A lui si deve anche il nome della trasmissione televisiva «La Domenica Sportiva».

Tornado alla telecronaca, bisogna specificare che si tratta di racconti diversi da quelli a cui siamo abituati oggi: la voce accompagnava la partita, ma in maniera discreta; non erano concesse o previste urla. Anche lo storico «Campioni del mondo» di Nando Martellini, telecronista della finale mondiale del 1982 tra Italia e Spagna, è passato alla storia, ma se ci si sofferma sul tono di voce basta poco per accorgersi che questo sale piano piano, guidato anche dall’emozione.

Oggi le telecronache sono molto più urlate, bisogna stare dietro a tutti i movimenti e, date le numerose telecamere presenti, il telecronista odierno pensa di poter interpretare ogni azione, le volontà dei giocatori, degli allenatori e degli arbitri. È una telecronaca completamente diversa a causa delle nuove tecnologie e del cambiamento del pubblico, molto più esigente rispetto a quello del passato; si assiste alla spettacolarizzazione del proprio io, tipica di voci come quella di Pier Luigi Pardo[22] o Sandro Piccinini[23] tra tanti. I telespettatori sono abituati a loro espressioni come non va, sciabolata morbida, numero, proprio lui o occhio alla battuta.

       In un’intervista recente, mentre era ospite di Andrea Scanzi nel programma «Futbol» su La7,[24] Sandro Piccinini definisce la telecronaca come un gioco, non un atto notarile. Il telecronista deve raccontare, farsi coinvolgere e coinvolgere. Soffermandosi sui termini più usati, da lui ma anche dai suoi colleghi, precisa che non sono “civetterie da telecronista” ma modi per rendere essenziale il linguaggio, per parlare meno. I termini non nascono per caso, ma c’è uno studio dietro e a volte funzionano perché rendono bene l’idea, seppur sembrino inizialmente atipici o stravaganti.

Non bisogna dimenticare di ricordare una nuova figura che si fa spazio negli anni, quella del commentatore tecnico. Tra le seconde voci più celebri Nino Benvenuti per il pugilato e Gigi Riva per il calcio fino ad arrivare alle moderne telecronache del tifoso, fatte di urla, di spasmi, di esultanze sempre al di sopra delle righe. Sui canali Mediaset Premium sono note le voci di Claudio Zuliani, Raffaele Auriemma, Carlo Zampa, Carlo Pellegatti che seguono rispettivamente Juventus, Napoli, Roma e Milan.

6.3 «LA DOMENICA SPORTIVA»: LA TRASMISSIONE PIÙ LONGEVA DELLA TV ITALIANA

L’11 ottobre 1953 nasce «La Domenica sportiva», la più vecchia trasmissione della tv italiana che ancora oggi fa parte del palinsesto Rai. Il primo servizio andato in onda riguardava l’incontro tra Inter e Fiorentina perché i tempi di lavorazione della pellicola non permettevano trasferte più lontane di Milano. Dalla medesima città, esattamente da Corso Sempione, va in onda la trasmissione alla quale partecipano giornalisti e ospiti d’onore. Non c’è spazio solo per il calcio: alcuni servizi sono dedicati al ciclismo e, in particolare, al successo del ciclista Nino De Filippis nelle Tre Valli Varesine, al tennis, al primo posto di Toni Prà nel premio Golfo di trotto a Napoli. Quando viene ufficialmente inaugurato il servizio televisivo italiano, il 3 gennaio 1954, «La Domenica Sportiva» è già arrivata alla tredicesima puntata.[25] Lo sport rappresenta il valore aggiunto, una formula vincente: i tifosi apprezzano fin da subito l’opportunità di poter vedere quelle azioni, quei goal di cui fino ad allora avevano solo potuto leggere i resoconti sui giornali.

Si tratta di un notiziario in cui il giornalista fornisce le notizie che giungono per telefono dagli inviati. Anche le pellicole sono soggette a un lungo viaggio: per essere trasmesse devono essere portate a Milano e Roma, le uniche città in cui i vari giornalisti, dopo aver assistito alle partite nei diversi stadi italiani, possono consegnare le pellicole affinché siano trasmesse in tv. I tempi sono troppo ristretti e quei filmati che non riescono ad arrivare in tempo vengono mostrati ai telespettatori il lunedì sera su «Telesport».

La svolta arriva nel 1965 quando il regista decide di cambiare l’impostazione della trasmissione per farle assumere un aspetto più spettacolare: adesso sono previsti uno studio, un pubblico e un conduttore, Enzo Tortora[26] (allora con Mike Bongiorno il più noto presentatore della tv italiana). «La Domenica Sportiva» si trasforma in un vero e proprio salotto, formula in uso ancor oggi. La conduzione di Tortora dura fino a ottobre 1969 quando viene provvisoriamente sostituito da Lello Bersani; la nuova stagione vede alla conduzione Alfredo Pigna.

Il problema per molti anni è rappresentato proprio dalla scelta del conduttore anche se l’avvio di altre trasmissioni come «90° minuto», che permettono la visione di tutti i momenti salienti dei match di serie A senza dover aspettare la tarda serata, implicano la perdita di pubblico e un conseguente calo degli ascolti.

Alla prima svolta ne segue una seconda, negli anni Novanta, quando nasce «Pressing», la trasmissione dedicata al calcio delle reti Fininvest e condotta dalla seconda stagione da Raimondo Vianello, un altro stakanovista della televisione italiana, popolarissimo, amatissimo e anche grande esperto di sport. La lotta degli ascolti si fa sempre più dura e le cose negli anni non migliorano perché le reti rivali pian piano crescono e si afferma un altro programma, «Controcampo». La «Domenica Sportiva» deve cambiare pelle, riservare sempre più spazio al calcio sottraendolo agli altri sport. Nonostante le numerose difficoltà, riesce sempre a restare in vita e a essere la trasmissione più longeva della tv italiana: anche quest’anno, per la stagione 2016-2017, va in onda ogni domenica sera condotta da Alessandro Antinelli, affiancato dall’atleta paralimpica Giusy Versace; a loro si aggiunge un parterre di opinionisti che già dal 1965 occupa gli studi della trasmissione.

Un’ultima nota di merito al programma, tenendo presente il filo conduttore di questa tesi, è quella di aver affidato, negli ultimi anni, la conduzione a volti femminili, non semplici presentatrici ma giornaliste sportive, quali Sabrina Gandolfi e Paola Ferrari. A quest’ultima spetta anche il merito di essere stata la prima donna ad aver condotto «90° minuto».

6.4 LE PRIME PROBLEMATICHE CALCIO-TV

Il rapporto tra il calcio e la tv è stato fin da subito problematico: la questione tifosi, che poi è strettamente connessa agli interessi economici sia delle società che delle emittenti televisive ha da sempre tenuto banco.

Già dall’inizio del 1954 le società di calcio non apprezzano la presenza delle telecamere negli stadi perché temono che queste riducano il numero dei tifosi sugli spalti. Le società calcistiche si riuniscono e informano che una commissione prenderà contatti diretti con la Rai per “regolarizzare” la questione. Solo Inter, Juve e Roma non si oppongono. In ballo c’è sempre il denaro e le discussioni ruotano attorno alle possibili soluzioni da adottare e a quanto l’emittente televisiva debba pagare per poter trasmettere i relativi servizi o le eventuali dirette.

Se le società di calcio si dicono contrarie alla tv, gli altri sport non disdegnano l’esposizione mediatica perché vedono nella televisione la possibilità di farsi conoscere dagli italiani. Questo è solo l’inizio di una dura diatriba che dura negli anni, fino ai giorni nostri: diritti tv, diritti di immagine, reti pubbliche, reti private, serie A, Champions League sono solo alcuni dei protagonisti delle trattative dei giorni nostri.

6.5 «TUTTO IL CALCIO MINUTO PER MINUTO»

«Tutto il calcio minuto per minuto» nasce il 10 gennaio 1960. Ad annunciarlo è la «Gazzetta dello Sport» che racconta dell’accordo raggiunto tra la Rai-Tv e la Figc. Inizia così l’era delle radiocronache multiple.

La diatriba tra i club e la Rai non termina facilmente perché i dirigenti delle squadre temono una minor affluenza negli stadi che corrisponde a una diminuzione dei guadagni. Si giunge, così, a un accordo: la radiocronaca multipla inizia solo dopo il secondo tempo mentre la teletrasmissione registrata può riguardare il primo o il secondo tempo di una partita da scegliere su tre incontri. Questo accordo viene approvato dai presidenti della serie A, con alcune modifiche a partire da novembre 1961: è concesso il passaggio in tv del secondo tempo di una partita, ma in differita, mentre possono continuare le trasmissioni radio dedicate alle partite di serie A e B.

La copertura dell’intera partita arriva a partire dalla stagione 1987-1988: i radiocronisti, in collegamento dai vari stadi, si alternano nel raccontare i match passandosi la linea nel momento in cui sono in atto azioni concitanti o episodi degni di nota. Un’altra novità importante a partire dal 1987 è la conduzione di Massimo De Luca che sostituisce Roberto Bortoluzzi. De Luca introduce negli studi della trasmissione un nuovo elemento, la televisione, che gli permette di accorgersi e di segnalare episodi sfuggiti ai vari inviati. Da allora la struttura del programma è rimasta invariata: un conduttore in studio, i radiocronisti in collegamento, le frequenze di Radio Uno.

Si trattava di un mondo completamente maschile, almeno fino al 1988 quando dai campi di calcio arriva in collegamento una giovane donna, Nicoletta Grifoni, la prima figura femminile a cimentarsi in una radiocronaca calcistica. Dopo di lei solo Gabriella Fortuna e Sara Meini.

6.6 «90° MINUTO»

Con il passare degli anni il calcio acquista sempre più popolarità e cresce la voglia dei tifosi di essere aggiornati su tutta la serie A. A questo, come detto prima, pensa già «La Domenica Sportiva», ma è anche vero che la trasmissione più longeva della tv italiana va in onda in tarda serata. Non tutti sono disposti ad aspettare così tanto, causa lavoro.

Queste problematiche danno il via all’idea di un novo programma che vada in onda la domenica pomeriggio, una volta terminate le sfide nei vari campi. Il 27 settembre 1970, in occasione della prima giornata del campionato di serie A, viene trasmesso «Novantesimo minuto», titolo primordiale del programma. Nato da un’idea di Paolo Valenti, Maurizio Barendson e Remo Pascucci, la trasmissione non dura più di un quarto d’ora: riepiloga i risultati delle partite, fornisce la colonna vincente della schedina del Totocalcio e fa rivedere le immagini delle partite giocate a Roma o a Milano, gli unici due centri da cui si può realizzare un servizio in breve tempo. Più passano gli anni, più l’interesse dei tifosi e dei telespettatori cresce, più aumentano le immagini che arrivano dai campi.

Il dibattito calcio-tv resta vivo anche in questi anni ma, in un’intervista rilasciata negli anni successivi alla creazione del programma, Brandeson sottolinea come la maggiore diffusione di immagini relative alle partite in tv abbia portato un aumento degli spettatori sugli spalti: le società hanno poco di cui lamentarsi. Brandeson resta alla conduzione del programma fino al 1976 quando passa al Tg2; la trasmissione è ora nelle mani del solo Velenti.

In quegli anni arrivano grosse novità: anche le sedi regionali possono andare in onda in diretta e così iniziano i collegamenti esterni delle varie città. Ogni corrispondente è addetto alla squadra della propria regione o del paese di origine: nasce così il famoso “teatrino di 90° minuto”, rimasto invariato anche durante le conduzioni successive a quelle di Valenti, con Fabrizio Maffei prima e Gianpiero Galeazzi poi. In seguito il programma è stato affidato alla redazione sportiva della Rai e alcune cose sono cambiate.

La sua fama e la sua importanza nel quadro della storia del giornalismo sportivo sono più che note: per anni è stata la trasmissione che per prima era in grado di fornire le immagini salienti delle partite e questo le ha permesso di raggiungere picchi di ascolto notevoli. Solo l’avvento della pay tv ha reso le cose complicate: la Rai ha perso i diritti sulla serie A e i nuovi format delle emittenti private hanno sostituito lo storico programma. Nel 2005, infatti, ha rischiato di scomparire dai palinsesti perché Mediaset aveva acquisito i diritti per la trasmissione delle partite di serie A. Restano alla Rai i diritti sulle partite della serie B e per questo «90° minuto» continua ad andare in onda anche in quegli anni, ma su Rai Tre.  Dal 2008 ha ripreso a trasmettere i servizi sulle partite di serie A, ha visto nascere una nuova versione, «90° minuto Champions», andata in onda soltanto per tre stagioni (dal 2009 al 2012) e si è modificata nel suo assetto. Durante l’ultima stagione «90° minuto» è stato condotto da Paola Ferrari (il primo volto femminile a condurre il programma nella stagione 2003-2004) e Marco Mazzocchi ed è stato tripartito in tre sezioni: «90° minuto – Zona mista», «90° minuto», «90° minuto – Tempi Supplementari».

 

6.7 LA TV DI CAPODISTRIA

In Italia il primato nella trasmissione dei programmi tv è detenuto dalla Rai. Nei primi anni Settanta viene messo in pericolo dalla Tv svizzera italiana (Tsi) e dalla tv di Capodistria. All’inizio Tsi è visibile solo nelle zone di confine, ma piano piano la sua diffusione aumenta fino a giungere nel territorio romano. La tv svizzera si caratterizza per il numero di trasmissioni che trattano lo sport in generale e per la presenza delle immagini dedicate al campionato svizzero, ma anche tedesco e inglese. Questo primato resta almeno fino agli anni Settanta quando nascono le tv locali in Italia e Tsi torna nei suoi confini.

Risalgono al 1968 gli inizi della tv di Capodistria che rappresenta l’alternativa alla tv svizzera  e fa dello sport uno degli argomenti principali del suo palinsesto, già innovativo per le immagini a colori.[27] Le Olimpiadi invernali di Sapporo del 1972, infatti, vanno in onda a colori e ogni sabato pomeriggio viene trasmesso l’anticipo del campionato jugoslavo. Grande spazio viene riservato al basket ma anche alla Coppa dei Campioni, rigorosamente il mercoledì.

Nel 1983 la tv di Capodistria firma un accordo con la Rai a causa di un calo dovuto alla diffusione delle tv private in Italia; lo sport resta sempre in primo piano e la rubrica «Dentro il Mundial» dei Mondiali del 1986 è molto apprezzata. Nel 1987, terminati gli accordi con la Rai, Capodistria si accorda con Silvio Berlusconi, proprietario della Fininvest: diviene la prima tv tematica sportiva italiana con accesso alle telecronache dei più importanti eventi sportivi internazionali. Il contratto viene sciolto nel 1989.

Dall’inizio degli anni Novanta, con la nascita di Tele+, Capodistria rientra nei confini locali. Nel 2006 ottiene una frequenza sul satellite Hot Bird e torna a essere accessibile per tutti gli italiani a cui, però, non è più concesso vedere lo sport a causa della questione dei diritti televisivi. Numerosi comunque sono i programmi sportivi che continuano ad andare in onda. Nel 2008 Capodistria è costretta a lasciare il satellite dove poi torna nell’agosto 2009, trasmettendo contemporaneamente sulle frequenze terrestri.

Attualmente l’emittente trasmette nove ore di programmi in lingua italiana, spaziando dalla politica alla cultura, dal costume allo sport, da trasmissioni per bambini e ragazzi alla musica di tutti i generi, dai grandi documentari alle telecronache sportive, fino ai più grandi avvenimenti sportivi internazionali che continuano a restare un caposaldo del palinsesto della rete.

6.8 TELEMONTECARLO: «PUNTOSPORT» E «GALAGOAL»

Alla tv svizzera e a quella di Capodistria si aggiunge ben presto Telemontecarlo, che inizia a trasmettere dal principato di Monaco il 5 agosto 1974. Visibile all’inizio solo nelle zone di confine con la Liguria, pian piano si diffonde sul restante territorio italiano, prima a nord e poi al centro.

Nel primo periodo lo spazio riservato allo sport è esiguo: in diretta vengono trasmessi solo i tornei di tennis di Montecarlo e di Wimbledon e il Gran Premio di Formula Uno di Monaco. Presto nasce anche la rubrica «Puntosport», a cura di Gianni Brera che ogni venerdì fa il punto sulla situazione sportiva, ma ancora più famosa è «Crono», una rubrica nata nel 1977, ideata e condotta da Renato Ronco, che si occupa degli sport motoristici.

Dal 1981 arriva anche la diretta dei grandi eventi calcistici: finali delle tre coppe europee, le partite di qualificazione ai Mondiali e agli Europei mentre il mercoledì, serata di solito dedicata sempre alla coppa, non manca mai una diretta (e sono comprese anche le partite delle italiane).

Nel 1990, in occasione dei Mondiali di calcio, prende il via una nuova trasmissione, «Galagoal». Le prime due edizioni sono condotte da Massimo Caputi, accompagnato da una giovanissima Alba Parietti, sempre seduta su un vertiginoso sgabello. Le sue minigonne e i suoi abiti succinti, a quel tempo, suscitarono molto scalpore. L’anno successivo la Parietti abbandona per trasferirsi in Rai e a lei succedono, nel corso degli anni, altri volti femminili tra cui l’ex calciatrice Carolina Morace, le giornaliste Marina Sbardella e Flavia Filippi e l’ex miss Italia Martina Colombari. Nella stagione 1997-1998 l’emittente riesce ad acquistare i diritti per trasmettere i goal delle serie A in una fascia oraria ridotta (dalle 19 alle 20.30); nasce in questa occasione «Goleada», condotto sempre da Massimo Caputi affiancato da Martina Colombari. La trasmissione va in onda fino al 2001.

Nel frattempo approda su Telemontecarlo Aldo Biscardi che porta con lui il suo famoso «Processo». L’emittente resta in vita con questo nome fino al 24 giugno 2001, anno in cui, dopo la cessione della rete da parte di Cecchi Gori a Seat Pagine Gialle, Telemontecarlo cambia nome e diventa La7.

6.9 «DOMENICA SPORT» e «DIRETTA SPORT»

La Rai non ha, almeno fino al 1977, la possibilità di trasmettere le radiocronache dei primi tempi delle partite. A partire dal 10 aprile di quell’anno, per contrastare e allo stesso tempo competere con le radio locali e radio Montecarlo, le viene concesso di inserire le radiocronache all’interno di «Domenica Sport» su Radio Due.

Mentre «Tutto il calcio minuto per minuto» inizia la sua diretta alle 16.20 su Radio Uno, su Radio Due i collegamenti iniziano già dalle 15.30, ma continuano i problemi tra la Lega calcio e la tv a causa del solito timore relativo alla perdita degli abbonamenti e dei tifosi sugli spalti.

Intanto nella stagione 1977-1978 si registra un’altra novità: su Rete 2 prende il via una nuova trasmissione, «Diretta Sport», che già alla fine del primo tempo propone i goal realizzati nei primi 45 minuti di gioco. L’esperimento, però, dura una sola stagione.

6.10 L’APERTURA AL CALCIO EUROPEO: «EUROGOL»

«Eurogol» è una trasmissione di Gianfranco De Laurentis e Giorgio Martino che nasce dall’idea di dar vita a un programma che renda visibili i goal realizzati durante le partite di coppa.  L’idea è quella di sfruttare le immagini che arrivano in Rai attraverso il circuito dell’Eurovisione e i due la propongono a Maurizio Barendson, nel frattempo divenuto responsabile dello sport per il Tg, che l’approva.

La prima puntata va in onda alle 22.50 di giovedì 15 settembre 1977 e offre una panoramica delle coppe europee di calcio. Rappresenta un’ottima opportunità per ammirare anche i campionati stranieri e scoprire modi diversi di giocare rispetto a quelli tipici della serie A: numerosi, infatti, sono all’estero i tiri da fuori area. È proprio per questo che i goal realizzati da certe distanze prendono, oggi, il nome di eurogol. A questa trasmissione va il merito di aver permesso agli italiani di conoscere il calcio oltreconfine e di aver introdotto la figura dell’opinionista tecnico. Il primo a essere ospitato è stato Gianni Di Marzio, allenatore da poco esonerato dal Napoli al tempo.

6.11 «IL PROCESSO DEL LUNEDÌ»

Aldo Biscardi, dopo le sue esperienze come giornalista sportivo presso «Il Mattino» e «Paese Sera», nel 1979 inizia a lavorare per la televisione come responsabile dei programmi sportivi della terza rete. Nel 1980 dà vita, insieme a Enrico Ameri, alla trasmissione che lo rende celebre: «Il processo del Lunedì». Il programma va in onda per la prima volta il 15 settembre 1980 su Rete 3 alle 22.30 con l’intento di far confrontare ogni settimana esperti di calcio, con pareri opposti, su un aspetto particolare del campionato.

L’argomento della puntata viene introdotto da Carlo Nesti[28] e a questo segue il dibattito acceso tra gli ospiti in studio: toni di voce elevati, caos e confusione sono gli elementi caratterizzanti la discussione. Alla fine il giudizio viene stabilito da un noto personaggio televisivo.

La trasmissione cresce con il passare degli anni e nel 1982 Biscardi passa alla conduzione con Marino Bartoletti; dal 1984 decide di condurre da solo, affiancato da una valletta. Nel 1993 Biscardi abbandona la Rai e passa a Tele+ portando con sé il programma, a cui deve attribuire un altro nome, «Il processo di Biscardi», personalizzando ancor più la trasmissione. Il giornalista passa poi a Telemontecarlo: la trasmissione continua a distinguersi per i toni accesi e le eloquenti discussioni. Nasce il cosiddetto “biscardismo”: tutto è concesso, anche parlare in due, tre alla volta.

Nel 2006, infine, Biscardi lascia La7 e da allora il suo programma va in onda sul circuito 7 Gold; nel 2011 riceve il premio per la trasmissione sportiva settimanale più longeva al mondo con lo stesso conduttore.

6.12 MEDIASET: DAI PRIMI PROGRAMMI SPORTIVI A OGGI

La Rai fino agli anni Ottanta ha il monopolio sulla tv italiana non avendo concorrenti. Dal 30 settembre 1980 le cose cambiano perché nasce Canale 5. Il nuovo canale è inaugurato da Silvio Berlusconi che, allo stesso tempo, inaugura in Italia un nuovo tipo di televisione, detta commerciale perché non basata sul canone annuo pagato dai cittadini italiani bensì sugli introiti ricavati dalla pubblicità.

Il primo passo compiuto è quello di acquistare i diritti del Mundialito, un torneo di calcio che si sarebbe disputato in Uruguay dal 30 gennaio 1980 al 10 gennaio 1981. Si tratta di una competizione di livello, a cui partecipano le nazionali vincitrici del Mondiale negli anni passati (compresa l’Italia) che ha, quindi, un potenziale d’ascolto elevato.

Numerose, però, sono le problematiche relative alla trasmissione delle partite e protagoniste dello scontro sono la Rai e Canale 5. Alla fine un accordo viene trovato: Canale 5 trasmette la diretta degli incontri che non riguardano la Nazionale e in differita su tutto il territorio nazionale l’intero torneo, mentre la Rai trasmette in diretta le partite degli Azzurri e la finale, in differita le restanti quattro partite.

Questo è solo l’inizio per Berlusconi: successivamente acquista anche i diritti di una serie di eventi sportivi dagli Stati Uniti. Negli anni successivi compaiono anche alcuni importanti match di pugilato e di tennis.

Il Mundialito, per quanto riguarda il calcio, è il primo passo verso ambizioni più grandi: la “conquista” del grande calcio europeo. Berlusconi acquista i diritti delle partite casalinghe di tre delle quattro squadre impegnate in Europa nella stagione 1981-1982: Juventus (Coppa dei Campioni), Roma (Coppa delle Coppe) e Inter (Coppa Uefa).

A partire dalla stagione 1982-1983, invece, prende il via una nuova trasmissione, «Goal», in cui viene presentata il sabato sera (e la domenica mattina in replica) la giornata calcistica. Sempre nel 1983 nasce «Record», un rotocalco sportivo di approfondimento che va in onda il sabato pomeriggio.

Dopo diversi anni, finalmente, anche Fininvest riesce a ottenere la diretta. Dal 1° settembre 1991 il palinsesto sportivo si arricchisce con diverse trasmissioni: prendono il via «Domenica Stadio» e «Pressing». «Domenica Stadio», nella sua prima stagione, viene condotta da Sandro Piccini e Marino Bartoletti.[29] Torna in onda dal 2005 al 2008 con la conduzione prima di Mino Taveri,[30] Mikaela Calcagno e Elisa Triani sostituiti, per le stagioni 2006-2007 e 2007-2008, da Paolo Bargiggia[31] e Patrizia Hnatek. Il programma ruota principalmente attorno alle interviste effettuate nel post partita.

«Pressing» nasce come rotocalco; nella prima stagione viene condotto da Marino Bartoletti. Dal 1992 arriva alla conduzione Raimondo Vianello, affiancato sempre da una bellissima valletta. Il programma inizialmente viene trasmesso in prima serata su Italia 1, ma successivamente va in onda in seconda serata scontrandosi con la storica «Domenica Sportiva» della Rai. Vengono analizzate le partite della domenica e numerose sono anche le interviste. In studio sono presenti diversi opinionisti che dibattono sui temi principali della giornata calcistica appena terminata. La trasmissione va in onda fino al 2000 quando è sostituita dal programma «Controcampo». In quella stessa stagione torna sugli schermi con un titolo diverso, «Pressing Champions League» con servizi interamente dedicati alle partite di Champions. Resta in vita fino al 2006 perché dalla stagione successiva i diritti per la Champions passano alla Rai.

Il 16 settembre 1991 viene trasmesso per la prima volta «Studio Sport», telegiornale sportivo con due edizioni quotidiane (una alle 18.20, l’altra intorno a mezzanotte e mezzo). Il tg viene condotto non solo da uomini come Mino Taveri e Davide De Zan, ma anche da diverse donne, affermate giornaliste sportive: Monica Vanali, Lucia Blini, Irma D’Alessandro e Beatrice Ghezzi. È questa una delle importanti novità ed è così che le donne, piano piano, si fanno sempre più strada nel giornalismo sportivo in tv. Nei vari servizi mandati in onda si raccontano le principali notizie sportive della giornata: soprattutto calcio, ma anche Moto GP, Formula 1, nuoto, ciclismo e altri sport. Negli anni le edizioni cambiano: resta invariata quella di mezzanotte in replica, ma quella delle 18.20 viene anticipata alle 13.00. Le edizioni sono quotidiane, dal lunedì al sabato mentre la domenica va in onda «Guida al Campionato». Con la nascita del canale Premium Sport nel 2015, «Studio Sport» cambia nome in «Sport Mediaset» e la domenica al posto di «Guida al Campionato» va in onda «Sport Mediaset XXL» in cui vengono mostrati gli highlights degli anticipi di serie A e viene presentato il programma della domenica calcistica. Nuove figure sono quelle delle “donne al touch”: ragazze di bella presenza, in alcuni casi giornaliste pubbliciste, che, poste dinanzi a un grande schermo touch, interloquendo con il conduttore/la conduttrice in studio, informano i telespettatori su tutte le notizie provenienti dal web, compresi i post visibili sui profili social di allenatori e giocatori.

«Controcampo», come anticipato prima, sostituisce «Pressing» a partire dalla stagione 2000-2001. Condotto prima da Sandro Piccini (2001-2008) e poi da Alberto Brandi (2008-2012), all’inizio viene trasmesso il lunedì sera a partire dalle 22.40 ma successivamente va in onda la domenica sera, subito dopo il posticipo di serie A. il programma ha visto sempre la presenza di almeno una donna: volti noti si sono avvicendati, anche se non si tratta di giornaliste professioniste ma di donne dello spettacolo: Martina Colombari, Elisabetta Canalis, Eleonora Pedron, Cristina Chiabotto, Melissa Satta. Nello studio sono costantemente presenti commentatori sportivi, esperti di calcio, calciatori o allenatori: Maurizio Mosca, Gianpiero Mughini, Paolo Liguori sono solo alcuni di questi. Ci sono servizi con le pagelle sul posticipo e l’inviata dai vari campi, Monica Vanali, pronta per le interviste del post partita. Altra giornalista sempre presente è Lucia Blini. La trasmissione chiude nel 2012: non viene confermata per la stagione successiva a causa dei scarsi ascolti registrati rispetto a «La Domenica Sportiva».

A sostituire «Controcampo» arriva sulle reti Mediaset un nuovo programma: «Tiki Taka  ̶  Il calcio è il nostro gioco». La conduzione del format, che nasce da un’idea di Claudio Brachino, viene affidata a Pierluigi Pardo. Va in onda il lunedì sera per commentare i risultati delle partite giocate nel week end, analizzare gli scontri previsti per la Champions League e l’Europa League e viene arricchito con approfondimenti e interviste esclusive a personaggi del mondo del calcio e non solo. In studio alcuni opinionisti ed esperti, molti ripresi da «Controcampo», sono sempre presenti ma spesso anche qui vengono ospitati calciatori o allenatori; Melissa Satta, sostituita per un breve periodo durante la sua gravidanza da Costanza Caracciolo, presenzia ogni puntata: si tratta di una figura femminile a metà tra la co-conduttrice e l’opinionista sportiva (anche se non sono accertate competenze in materia calcistica). «Tiki Taka» è in sostanza un talk-show dedicato al calcio in cui alle notizie sportive si mescola anche il gossip.

6.13 «QUELLI CHE IL CALCIO»

Le partite di serie A non possono essere trasmesse in diretta dalla Rai. Si decide allora di “sfruttare” la formula della famosa trasmissione radiofonica «Tutto il calcio minuto per minuto», che da anni informa gli italiani in diretta sui risultati dei vari campi di calcio, per avviare un nuovo programma televisivo. Con collegamenti in diretta dai vari stadi, il 26 settembre 1993 nasce «Quelli che il calcio…», condotto da Fabio Fazio. Non solo ci sono i commenti live sulle partite di campionato ma anche i radiocronisti della popolare trasmissione radiofonica che aggiornano via telefono, comparendo anche in video, i telespettatori sui vari goal. La trasmissione riscuote subito successo e nel 1998 viene trasferita da Rai Tre a Rai Due.

Alla conduzione resta Fabio Fazio fino al 2001, anno in cui gli succede Simona Ventura. Arrivano con lei nuovi telecronisti: Bruno Pizzul e Massimo Caputi sostituiscono Marino Bartoletti e Carlo Sassi che fino ad allora si erano occupati delle notizie sportive. Insieme a loro giunge anche un nutrito gruppo di comici tra cui Gene Gnocchi e Maurizio Crozza che conferiscono una verve diversa alla trasmissione prendendo in giro e imitando numerosi personaggi dello sport e del calcio.

Con l’acquisto dei diritti della serie A da parte di Mediaset nel 2005 la trasmissione è costretta a cambiare la sua impostazione: resta nel palinsesto Rai, aggiorna i telespettatori sui risultati delle partite ma propone dei finti collegamenti dagli stadi. A causa di questo cambiamento, nel 2006 muta anche il titolo che diviene «Quelli che il calcio e…» per sottolineare il minor spazio riservato al calcio. Il vecchio nome viene recuperato nel 2008, quando i diritti tornano alla Rai.

Dal 2011 al 2013 la conduzione viene affidata a Victoria Cabello: il programma diventa sempre più un format di spettacolo e di calcio si parla sempre meno; grande spazio viene dato ai comici mentre diminuisce sempre più quello per il calcio[32] come testimonia anche il titolo mutato in «Quelli che…».

Dalla stagione 2013-2014 la conduzione passa a Nicola Savino: torna «Quelli che il calcio» che dimostra la volontà del presentatore di tornare a focalizzare di nuovo l’attenzione sulle partite e i risultati. Ritornano, come agli inizi, i collegamenti con i radiocronisti di «Tutto il calcio minuto per minuto». Nell’ultima stagione andata in onda (2015-2016) sono stati riproposti i collegamenti in diretta dai campi di calcio della serie A. Una giovane giornalista, Sarah Castellana, occupa la postazione del tavolo tecnico e, oltre a commentare le varie partite, affiancata da Bruno Pizzul, Paolo Casarin e Ivan Zazzarroni, informa sui risultati delle partite. Nicola Savino è alla conduzione per la quarta stagione consecutiva, quella che ha preso il via il 13 settembre sempre su Rai Due.

6.14 LA PAY PER VIEW: SKY E MEDIASET PREMIUM

Quando si parla di pay per view si intende un tipo di televisione che, per essere visto, necessita di un abbonamento. Questo sistema, nato in America, si affaccia in Italia a partire dalla seconda metà degli anni Novanta. Le prime piattaforme a pagamento nel nostro paese sono state Tele+ e StreamTv, dalla cui fusione nel 2003 nasce Sky, emittente che fin da subito dedica ampio spazio allo sport, garantendo, grazie all’acquisto di un pacchetto, la diretta delle partite di serie A.

Siamo nel 2008: la Rai riesce a riacquistare nuovamente i diritti sulle partite di serie A, da tre anni appannaggio solo di Mediaset. I risultati del triennio, per quest’ultima, sono scarsi rispetto a quanto investito nel 2005: Bonolis abbandona la conduzione di «Serie A» solo pochi mesi dopo l’inizio del campionato, il programma viene affidato a Sandro Piccinini, fino ad allora conduttore di «Controcampo», alla cui conduzione arriva Alberto Brandi. Mediaset decide così di puntare tutto sulla pay per view e di competere con Sky, principale concorrente in materia di abbonamenti per l’esclusiva delle immagini delle partite di serie A. Sempre nello stesso 2008, il 30 settembre, Sky lancia un nuovo canale dedicato interamente all’informazione sportiva: SkySport24.

Con la nascita di Premium Sport nel 2012 i programmi sportivi si moltiplicano: il calcio viene analizzato e sviscerato in ogni sua parte e un ruolo sempre maggiore assumono le donne in questo ambiente. Ilaria D’Amico diviene la “prima donna” di Sky; giornaliste come Anna Billò e Lia Capizzi si affermano come conduttrici dei tg sportivi di Sky e non solo. Sulle reti Mediaset, oltre le varie inviate e conduttrici di Studio Sport, si afferma su Premium anche un nuovo volto, quello di Mikaela Calcagno, conduttrice di «Serie A Live» e «Speciale calciomercato».

7.   IL CALCIO: FENOMENOLOGIA E SPETTACOLARIZZAZIONE

Il calcio ha smesso da anni di essere il semplice scontro tra due squadre composte da undici giocatori ciascuna che si scontrano su un prato verde. Con il passare degli anni il tifo è diventato sempre più accanito e, come abbiamo avuto già modo di fare nei precedenti paragrafi ripercorrendo la storia dei più noti programmi dedicati allo sport, si può notare come il calcio sia diventato sempre più centrale all’interno della società oltre che una gigantesca “macchina da soldi”. All’inizio molte trasmissioni sono nate proprio per il bisogno di tenere aggiornati quei tifosi che non potevano andare allo stadio o che non potevano permettersi di acquistare un biglietto; hanno fatto la storia della radio e della televisione italiana e pian piano si sono evolute: dapprima solo le voci, poi le immagini, infine opinionisti, esperti e vallette per aprirsi definitivamente, infine, anche al giornalismo femminile, composto da donne competenti e esperte. Il calcio non è più solo la semplice partita che i tifosi vanno a vedere allo stadio, ma è corredato da una serie di elementi esterni.

A tal proposito è utile fare riferimento all’ultimo libro dell’antropologo francese Marc Augé, «Football: il calcio come fenomeno religioso». Nell’aletta si legge:

Un rito celebrato da ventitré officianti e qualche comparsa davanti a una folla di fedeli che raggiunge talvolta le decine di migliaia di individui ai quali si sommano, davanti agli apparecchi televisivi, milioni di “praticanti a domicilio”. Il football, il più popolare tra gli sport di massa, è al tempo stesso pratica e spettacolo […].

Viene ripercorsa la storia dagli albori fino ai giorni nostri in poche righe, sottolineando come questo sport si sia trasformato sempre più in una forma di spettacolo. Oggi, come già detto precedentemente, è «Tiki Taka» l’esempio lampante di questo fenomeno di spettacolarizzazione, quanto meno in televisione. Nelle prime due puntate della stagione 2016/2017 sono andati onda prima un servizio dedicato al tradimento del Napoli e dei suoi tifosi da parte di Higuain, poi un discutibile filmato sull’avvistamento di Cavani in un hotel di Napoli. La “ricerca” del giocatore, iniziata su Twitter per volontà di una giornalista napoletana, Anna Trieste,[33] si è trasformata in vero e proprio gossip e in un fenomeno mediatico.

Si legge ancora nel libro di Augé:

Il calcio costituisce un fatto sociale perché riguarda, più o meno, tutti gli elementi della società ma anche perché si lascia considerare da diversi punti di vista. In se stesso è doppio: pratica e spettacolo.[34]

Quindi il calcio è spettacolo non solo in campo, ma anche al di là degli spalti. E proprio questo sua spettacolarità, continua Augé, può essere il fondamento della sua natura religiosa. La religione, si sa, è da sempre coesione, unione e identificazione: proprio per questo probabilmente, per lunghi anni, il mondo del calcio è stato solo un mondo maschile, in cui le donne non avevano accesso né come tifose, né come giornaliste professioniste. Nato come mondo prettamente maschile è diffidente nei confronti dell’universo femminile. Solo negli ultimi anni negli stadi si è cominciato a registrare la presenza di giovani donne e solo pian piano queste ultime sono riuscite a farsi spazio nel giornalismo sportivo. La prima a scrivere per la «Gazzetta dello Sport» è stata Rosanna Marani, Paola Ferrari con il passare degli anni si è affermata in Rai riuscendo a ottenere la conduzione di un programma, «90° minuto», fino ad allora a sola conduzione maschile; così fino ai giorni nostri in cui una giovane Gaia Brunelli cerca di abbattere una delle ultime barriere rimaste in piedi per le donne in questo settore: la telecronaca di una partita di calcio.

La spettacolarizzazione risiede anche nella scelta da parte delle emittenti di far presenziare numerose vallette nei programmi sportivi: la loro bellezza tiene incollati gli uomini al teleschermo, garantisce un’audience elevata e un maggiore successo per il programma. Tutto questo si lega alla questione dei diritti tv, agli sponsor, a un’eterna lotta tra le varie emittenti: tutti ingredienti di un unico pentolone, il calcio, intorno al quale ruota la vita di molti italiani, non solo uomini.

CAPITOLO 2

DONNE E GIORNALISMO: UN DIFFICILE PERCORSO DI EMANCIPAZIONE

1.   LE PRIME DIFFICOLTÀ

Le porte del giornalismo letterario si aprono alle donne italiane nella seconda metà del Settecento. All’inizio si parla di «stampa femminile», termine con cui a lungo si sono indicati i giornali di moda e di buone maniere. Le donne sono state escluse per molto tempo dalla politica e la società ha relegato la figura femminile a un ruolo sempre più marginale nel campo giornalistico, costringendole a scrivere solo per giornali femministi o a pubblicare articoli sotto pseudonimi.

Ciò che è importante sottolineare è come l’impegno delle donne nel giornalismo si sia manifestato con discontinuità: ci sono stati grossi problemi per dar vita ai giornali e, soprattutto, per dirigerli direttamente. Fino agli anni Quaranta-Cinquanta per una ragazza pubblicare un articolo su un giornale era pura eccezionalità. Il gentil sesso, infatti, ha subito nelle redazioni quelle marginalizzazioni che la società italiana ha riservato loro in tutti i campi: non c’era possibilità di occuparsi di politica o di economia. A partire dalla seconda metà del Novecento qualche nome può essere fatto: Oriana Fallaci,[35] Camilla Cederna,[36] Barbara Spinelli,[37] Lucia Annunziata.[38] Donne che si sono affermate non solo nella stampa al femminile, ma nel giornalismo italiano e internazionale come opinioniste politiche, economiche, culturali. Negli anni più recenti il gentil sesso ha visto aprirsi le porte di settori a lungo negati: le donne sono sempre più incaricate di fare reportage, si occupano di cronaca e di analisi politica, ma la vita nelle redazioni è sempre difficoltosa. Vediamo ora come è avvenuta questa emancipazione.

2.   LE EVOLUZIONI DEGLI ANNI SETTANTA

La crescita del numero delle donne nel giornalismo ha un rapporto diretto con la trasformazione del sistema di informazione in Italia, che ha riguardato il campo giornalistico e ha dato il via a una fase di “accesso allargato”,[39] così come la definisce Milly Buonanno.[40] Tali cambiamenti sono strettamente legati anche alla maggiore diffusione del mezzo televisivo: in questi anni, infatti, nasce la terza rete della televisione pubblica la quale, prediligendo l’informazione regionale, fa sì che le redazioni aumentino; inoltre, nascono nuovi quotidiani nazionali («La Repubblica» e «Il Giornale»), si moltiplicano le testate periodiche specializzate e, infine, cominciano a sorgere le prime emittenti private. Queste rappresentano una grande opportunità per tutti quei giovani che vogliono affermarsi come giornalisti e lo sono ancor più per le donne.

A tutto ciò deve aggiungersi il ruolo fondamentale che ha avuto negli anni Settanta il movimento femminista per cui il tema dell’informazione era al centro della lotta più che in altri paesi. Le donne, infatti, oltre a rivendicare uno spazio maggiore per le notizie loro riservate, vogliono cercare di incidere di più all’interno delle redazioni contribuendo a determinare in prima persona il processo informativo. Lo scopo del loro operato è quello di porre fine alle disuguaglianze delle opportunità di accesso e alla marginalizzazione delle donne in una delle professioni più importanti della società moderna e quello di imprimere un cambiamento alla qualità dell’informazione.

Attive protagoniste di questa volontà di cambiamento sono le donne appartenenti al movimento «coordinamento delle giornaliste», nato nel 1976. Esse rappresentano una voce critica e rivendicazionista sia sulle discriminazioni subite dalle donne nella professione sia sulla marginalizzazione; sono mosse dalla convinzione che il loro ingresso nel giornalismo permetterebbe di cambiare la realtà informativa.

Nonostante questi primi passi, alle donne continua a essere relegato lo spettacolo, per la loro capacità a intrattenere quel genere di relazioni sociali che garantiscono a questo campo il flusso delle informazioni. La figura femminile è sempre destinata ai settori meno in evidenza: alla cultura, allo spettacolo, alla scuola. Se lavorano per la cronaca questo accade solo perché fanno parte di un gruppo più vasto, costituito per la maggior parte da uomini, all’interno del quale, però, restano sempre ai margini.

Come riporta Milly Buonanno nel 1978 le donne giornaliste sono poco più di 700 su un insieme di oltre 7000 professionisti.[41] In questi anni lavorare in un periodico femminile è una scelta obbligata: mentre gli uomini approdano ai quotidiani, ai settimanali di politica e cultura, le donne devo accontentarsi dei “femminili”. Nelle varie redazioni (televisive e non) le donne sono una presenza rara.

Si parla di queste prime “eroine” come di “giornaliste di prima generazione”,[42] donne che hanno dovuto lottare, fare sacrifici sia in ambiente lavorativo che privato, per entrare in un mondo prettamente maschile.

In questo contesto, fatto di manifestazioni, di ragazze che piano piano riescono a farsi spazio pur con numerose difficoltà, si inserisce una figura come quella di Rosanna Marani. Non tutti i settori sono accessibili, figuriamoci lo sport, e ancor di più il calcio, da sempre un ambiente di maschi e per maschi. Lei sogna di descrivere e raccontare partite e di farlo per «La Gazzetta dello Sport», ma le viene risposto di provare a bussare alle porte di «Grazia», una delle più note riviste rivolte alle donne a quel tempo e ancora oggi. Il suo è un caso del tutto unico perché riesce a raggiungere il suo obiettivo, ma della sua storia si parlerà nel prossimo capitolo.

3.   ANNI OTTANTA E NOVANTA

Grazie al lavoro svolto dal movimento a partire dal 1976 le donne vedono aprirsi loro le porte per l’ingresso alla professione. Le “giornaliste della seconda generazione” o “politiche”, quelle della fine degli anni Settanta, con il loro ingresso nelle redazioni, determinano un cambiamento nel prodotto informativo: l’attenzione per il mondo delle donne e della vita quotidiana raggiunge un livello mai visto fino ad allora. In questi anni l’accesso alla professione per loro diviene più semplice.

Nel corso degli anni Ottanta crescono le differenze tra le stesse giornaliste: entrano in questo mondo figure e profili eterogenei, le cui peculiarità sono dettate dalle varie esperienze, dai livelli di riuscita della carriera, dalle aspettative e dalle energie di ognuna.

In questi anni si affermano le “giornaliste della terza generazione”, quelle che scelgono la professione non per questioni di emancipazione o di politica, ma per sentimento, perché amano questo mestiere. Le donne ora sono in numero superiore rispetto al passato e sono più consapevoli di se stesse: la voglia di affermarsi, che a lungo era stata repressa, oggi può essere manifestata e innesca un nuovo meccanismo, quello della competizione.

Convegni e incontri, tenutisi soprattutto nel biennio 1986-1987, hanno messo in evidenza aspetti molto interessanti. In particolare hanno sottolineato in triplice maniera il concetto della differenza che caratterizza i vari profili. La disuguaglianza è dettata in primis dalle molteplici esperienze maturate nell’editoria giornalistica: ci sono donne che restano nei settori femminili, in quella stampa settimanale o quotidiana che tratta i soliti temi riservati alle donne. La diversità, poi, è determinata anche dal modo in cui le donne guardano il mondo, sognandolo privo di compromissioni o inganni. Infine, queste figure si contraddistinguono rispetto a quelle degli anni Settanta perché non lottano più per avere spazio bensì vogliono elaborare un punto di vista a tutto campo sull’informazione, anche se c’è chi continua a lamentare spazi limitati.

Alle rivendicazioni degli anni Settanta le donne oppongono un nuovo orgoglio di sé, il senso forte del loro valore e riconoscono una diminuzione, se non una totale caduta, delle discriminazioni precedenti: non sono più marginalizzate nelle redazioni anche se fin da subito sorge una nuova questione, quella della bellezza, legata soprattutto al campo televisivo, dove contano maggiormente requisiti di immagine e di bella presenza.

Un altro dato certo degli anni Ottanta-Novanta è la consapevolezza da parte delle donne di avere un approccio all’informazione completamente diverso rispetto a quello degli uomini ma resta, però, una forte difficoltà a far passare questa visione negli ambienti redazionali.

Dopo i primi cambiamenti avvenuti in seguito alle rivendicazioni delle donne, negli anni Novanta si può parlare per le donne di una nuova visibilità e di una nuova autorevolezza nella professione giornalistica che dapprima riguarda la stampa periodica, poi i quotidiani e infine le testate televisive. Nonostante questo, però, la Buonanno parla comunque di visibilità senza potere: le donne aumentano nelle redazioni, sono visibili e anche apprezzate, ma restano escluse dall’esercizio del potere. Bisogna capire, però, se si tratta di discriminazione e semplice esclusione o se si tratta di una forma di protezione per preservarle da un’occupazione a alti livelli che richiede un impegno maggiore, molte volte incompatibile con i ritmi di vita e le priorità di una donna.

Per gli anni Novanta, inoltre, si può parlare di vera e propria diversità anche per la coesistenza delle diverse generazioni di giornaliste in questo campo. Ciò che più viene messo in risalto è proprio il connubio giornaliste-televisione: le donne aumentano e molto spesso il loro esordio nel mondo del giornalismo coincide con un’esplosione della visibilità nell’ambiente televisivo. Viene abbattuta anche questa barriera e non solo le corrispondenti di guerra sono in numero maggiore, ma anche le figure femminili che si occupano di politica e quelle che conducono trasmissioni sportive sono molte di più.

4.   ANNI DUEMILA

I cambiamenti determinati dal diverso utilizzo del mezzo televisivo sono notevoli. Le cose iniziano a mutare a partire dagli anni Ottanta per determinare vistose trasformazioni dai primi anni Duemila fino a oggi: donne inviate, conduttrici, corrispondenti sono presenti sugli schermi televisivi come mai era successo prima, a partire dalle principali edizioni dei notiziari fino ai programmi di attualità.

Le figure femminili sono numerose nei telegiornali della sera e sono numerose nei collegamenti: si tratta di donne esperte, presentate in video ben curate (a partire dall’abbigliamento, dal trucco, dalla capigliatura). Naturalmente questo genere di discorsi non vale per le donne della carta stampata che restano delle firme, notevoli, ma non dei volti noti sui quali fantasticare.

Nonostante questa elevata presenza, soprattutto sullo schermo, nei primi anni Duemila non si può parlare per loro di ruoli al top nelle redazioni giornalistiche. La televisione ha fatto aumentare la visibilità e anche la loro notorietà in Italia, ma a questo non è corrisposto un “aumento dei poteri”.

Anche oggi cultura e spettacolo sono i principali campi di occupazione per le donne sia sul cartaceo sia in televisione, ma si può comunque affermare che il giornalismo si è trasformato da un settore dominato dagli uomini a una professione accessibile anche per le donne.

Sempre secondo Milly Buonanno ci sono alcuni fattori strutturali che rendono conto del disquilibrio nella ripartizione sessuale dei posti-chiave all’interno della professione giornalistica. Si tratta di un fattore di età e di esperienza: la maggior parte delle donne giornaliste che è entrata negli ultimi anni in questo mondo è più giovane e inesperta e, pur non avendo sufficienti anni di carriera alle spalle, viene subito lanciata in video. Questo dato si può benissimo rilevare nel campo del giornalismo sportivo: a donne che hanno cominciato a muovere i primi passi negli anni Ottanta-Novanta come Paola Ferrari, Monica Vanali, Beatrice Ghezzi, Donatella Scarnati, Lucia Blini, si affiancano oggi numerose giovani ragazze con un’esperienza molto più esigua nel settore sportivo. Basta sempre dare uno sguardo alle emittenti Sky e Mediaset per rendersene conto: al parterre di giornaliste di vecchia data, esperte, che hanno fatto anche la storia, se ne aggiungono altre molto giovani, con un profilo nettamente differente. Il fenomeno mediatico Diletta Leotta è il più noto e il più recente: una “valletta” passata dalle previsioni meteo a SkySport per la conduzione dei programmi dedicati alla serie B, più apprezzata per le sue curve che per le sue doti da giornalista. A questa si possono aggiungere Eleonora Boi, Benedetta Radaelli e Michela Persico, tutte dipendenti Mediaset. La strada pare decisamente in discesa, soprattutto in questo settore, quello dello sport, dove la bellezza sembra dare una grossa mano. Ma sarà davvero così?

4.1 ANCORA “QUESTIONE DI SETTORI”?

Secondo quanto si legge nel saggio di Milly Buonanno Al fronte ma non sulla front page,

«la segregazione orizzontale – derivante dall’attuazione di pratiche sessuate di divisone del lavoro giornalistico – ha lungamente costituito la forma forse più insidiosa di discriminazione nei confronti delle donne […]. Le donne si sono viste relegate a lungo in settori decentrati e marginali della geografia redazionale, fuori dalle prestigiose arene dove si produce informazione su fatti ad alto grado di notiziabilità».[43]

La marginalizzazione delle donne è legata alla differenza tra hard news e soft news che rispecchia la suddivisione uomo/donna in questo ambiente: le hard news e quindi la politica, l’economia, le questioni di interesse pubblico e lo sport sono sempre stati affidati a uomini, mentre le soft news, ovvero le notizie di società, costume, scuola, casa, sono sempre connotate da una presenza femminile soprattutto per quanto riguarda la carta stampata.  Con il passare degli anni i temi ricoperti dalle donne sono stati considerati in maniera diversa e sono stati rivalutati; la numerosa presenza femminile nelle redazioni ha fatto sì che le donne effettuassero un’incursione nei settori a egemonia maschile.

L’analisi della Buonanno si sofferma sulla carta stampata e, in particolare, sulla presenza della firma delle donne in prima pagina. Sui quotidiani la disparità uomo/donna è più marcata, probabilmente per la questione “non vedo” che differenzia un giornale da un programma televisivo. Riferendoci sempre al giornalismo sportivo, sulla carta stampata si può parlare di vera e propria riserva verso le donne, determinata da un dato ovvio, e dato per scontato, secondo cui le ragazze sono incompetenti in materia sportiva e disinteressate a questo genere di argomento.

Quando alle donne viene concessa la possibilità di cimentarsi in questo genere di giornalismo, non si permette quasi mai loro di occuparsi della cronaca degli eventi ma si affidano loro l’analisi dei profili e le interviste ai personaggi protagonisti di determinati avvenimenti sportivi. Questa sembra essere una peculiarità del giornalismo sportivo al femminile e una delle evoluzioni del giornalismo contemporaneo.

Il giornalismo sportivo sulla carta stampata presenta caratteristiche diverse rispetto a quello televisivo. In tv le cose sono cambiate, si sono evolute, la presenza femminile è sempre più un dato di fatto e non un’eccezione. Ciò che c’è da analizzare è la diffidenza della quale le donne sono ancora vittime, le difficoltà che incontrano in questo mondo e come devono muoversi per poter sconfiggere i pregiudizi, dimostrando di essere donne mosse dalla passione e competenti.

Un’interessante incontro in cui si sono affrontate queste tematiche è quello tenutosi al Festival Internazionale del Giornalismo di Perugia nell’aprile 2015. Proviamo a riflettere sulle testimonianze e sui dati emersi in questo dibattito.

4.2 LE DONNE E IL GIORNALISMO SPORTIVO: ANALISI DELL’INCONTRO TENUTOSI AL FESTIVAL INTERNAZIONALE DEL GIORNALISMO DI PERUGIA (APRILE 2015)

Il dibattito tenutosi all’interno del Festival Internazionale del Giornalismo di Perugia,[44] nell’aprile 2015, è quasi un unicum nel giornalismo sportivo, essendo uno dei pochi dedicati a questa tematica. Già il titolo Giornalismo sportivo: singolare al femminile? racchiude in sé uno degli argomenti più discussi negli ultimi tempi. L’incontro, organizzato in collaborazione con l’Associazione Giornalisti della Scuola di Perugia, è moderato da Giorgio Matteoli[45] e vede ospiti e protagoniste alcune giornaliste sportive tra cui Elisa Calcamuggi di Sky Sport 24, Nicoletta Grifoni di Rai Marche, Rosanna Marani e Simona Rolandi di Rai Sport.

L’argomento di base è il rapporto tra il giornalismo sportivo e le donne, il cui legame è spesso reso difficile dal maschilismo imperante in questo ambiente: nel terzo millennio la situazione è cambiata o si è ancora lontani dal raggiungere l’ambita parità dei sessi? Quali sono i passi che il giornalismo sportivo al femminile deve ancora compiere? Quali quelli da fare per le giovani che si avvicinano a questo mondo? È possibile, per le giornaliste di oggi, superare tanti pregiudizi? Il contributo e le testimonianze di chi ce l’ha fatta sono importanti per rispondere a questi interrogativi, per capire a che punto si è ora e che prospettive ci sono per il futuro.

Il dibattito si apre con la lettura di un dato significativo, frutto di un’analisi di Newslab,[46] effettuata nella prima settimana di febbraio 2015: «Il Messaggero» è il quotidiano con la percentuale più alta di articoli firmati da donne (33%); i peggiori sono «La Gazzetta dello Sport (7%) e il «Corriere dello Sport» (2%). Un dato rilevante che, nei mesi successivi non ha visto alcun tipo di miglioramento.[47]

Anche in questo caso è bene partire dagli albori e ripercorrere la storia dall’inizio. La presenza di Rosanna Marani è utile per sottolineare nuovamente le difficoltà che le donne hanno incontrato per vedere aperte loro le porte del giornalismo sportivo. Prima di arrivare a Milano, si occupava della cronaca per il «Resto del Carlino», ma il suo sogno nel cassetto era quello di scrivere di calcio. Siamo negli anni Settanta, gli anni dei movimenti femministi volti all’emancipazione di quest’ultime, ma certi spazi sono ancora chiusi. L’idea che una donna si occupi di calcio è “fuori dal mondo” in Italia ed è per questo che quando decide di provare a intraprendere la sua strada le viene suggerito di trasferirsi in America o di rivolgersi alla redazione di «Grazia».

Anche una volta raggiunto il suo intento, solo dopo aver portato al direttore un’intervista a Gianni Rivera, allora in silenzio stampa,[48] le difficoltà restano numerose. Le donne nel calcio non sono ben viste, soprattutto come inviate e si presenta un nuovo scoglio, quello degli spogliatoi, un problema di allora come oggi, anche se per problematiche diverse. La Marani racconta infatti che, nonostante fosse arrivata alla «Gazzetta dello Sport» e con un telegramma fosse stata inviata allo stadio Dall’Ara di Bologna per occuparsi degli spogliatoi, un uomo addetto alla sicurezza le impedisce di entrare in quanto donna. Questo certo non la ferma; risponde a tono all’energumeno[49] e riesce ad avere accesso agli spogliatoi, ma l’accaduto sottolinea ancora una volta la disparità e le discriminazioni cui erano soggette le donne allora: allo stadio Marassi fu addirittura chiusa nello stanzino. Era una questione solo di discriminazione sessuale o anche di pregiudizio? Allora bisognava fare la voce grossa per imporsi, quasi diventare maschio per sperare di trovare spazio. Oggi la questione, forse, si pone in termini diversi e dipende dal modo di porsi di alcune ragazze e dalla reazione che possono provocare nei giocatori.

Simona Rolandi ricorda, a tal proposito, che durante il suo primo lavoro pagato, quello a «Roma Channel», gli uffici delle giornaliste erano separati dai luoghi frequentati dai giocatori proprio per evitare problemi. Il punto fondamentale è rappresentato da come ci si pone: secondo la giornalista Rai se ci si veste in un certo modo non si può pretendere che la gente ascolti anziché guardare. Si tratta del famoso binomio bellezza-competenza.

Negli ultimi anni si è fossilizzata l’attenzione sull’immagine della donna e forse troppe ragazze sono state assunte più per il loro aspetto estetico che per la loro preparazione, al contrario di quanto accade per gli uomini che vanno in onda a prescindere dai canoni estetici. Le considerazioni delle protagoniste a riguardo sono varie. Simona Rolandi sostiene che questo fenomeno si stia divulgando in maniera dilagante ma è convinta che il telespettatore sia in grado di percepire la competenza di chi sta parlando: «Dalla tv si capisce chi sei, cosa stai facendo. Quello è un puntare di più su altre cose, sulla bellezza. È vero che siamo in tv ma abbiamo molti inconvenienti come il servizio che si blocca, il collegamento che non va, che non è pronto. Tu devi prendere tempo e devi essere preparata. Se non sai di cosa stai parlando, come fai a riempire gli spazi “vuoti”?».[50]

Elisa Calcamuggi sostiene che molte ragazze arrivate a Sky siano state messe alla conduzione del tg sportivo senza mai aver avuto un’esperienza in questo campo, ma a “salvarle” è la conduzione doppia, che spesso aiuta. Anche se essere designate come presentatrici è una cosa importante, ci sono delle scalette, un regista e una serie di aiuti che rendono più facile la gestione della situazione, molto più di quello che può accadere durante una radiocronaca o una telecronaca.

Nella radiocronaca o nella telecronaca, infatti, non si può porre la questione in termini di bellezza perché c’è solo la giornalista con il microfono che deve gestire il suo lavoro in autonomia senza nessuno che la supporti. Secondo Nicoletta Grifoni la sua fortuna è stata proprio quella di fare la radio, di essere una voce e non un viso. Il suo timbro piaceva, funzionava e questo le ha permesso di fare carriera senza dover cercare la tv per raggiungere il successo. La radiocronaca, infatti, è un lavoro diverso in cui se una donna sbaglia è facile che venga crocifissa e massacrata il giorno dopo su tutti i giornali. Sbagliare anche solo una parola vuol dire non potersi riprendere e andare avanti comunque, diversamente da quanto accade a una conduttrice. Il quesito che pone la Grifoni è interessante: «Vale la pena rischiare e sottoporsi al massacro quando una ragazza, tra l’altro anche bella, in tv ha lo stesso feedback di una che fa la radiocronaca osando molto meno?». È una questione di passione e di coraggio, anche quello di correre il rischio di commettere un errore.

È comune pensare e si ripete continuamente in questo incontro che gli errori costano cari a una donna. Secondo Simona Rolandi per gli uomini una ragazza sbaglia perché da piccola giocava con le bambole mentre la critica nei confronti degli uomini è decisamente più soft: lo sbaglio è consentito, a differenza di quanto accade con le donne per cui la tolleranza nel mondo del calcio è molto bassa, se non pari a zero. La difficoltà per la giornalista Rai sta nel combattere lo scetticismo iniziale e i pregiudizi forti e consolidati di cui sono vittime le giornaliste, nonostante ultimamente il numero delle donne alla conduzione sia aumentato. È difficile ottenere credibilità che solo lo studio, la preparazione quotidiana e l’umiltà possono dare.

A volte anche ascoltare i colleghi maschi aiuta perché in certi casi gli uomini vedono delle cose che le donne non sono in grado di cogliere così come è vero che queste ultime hanno una sensibilità diversa, un modo di approcciarsi alla notizia differente rispetto a quello maschile: riescono a tirare fuori delle risposte che gli intervistati di fronte a un uomo non darebbero mai. Non è vero che nel giornalismo sportivo si parla solo di calcio e si descrivono solo partite; molte volte si raccontano anche delle storie di vita oltre che delle storie di sport e le donne hanno una marcia in più dal punto di vista emozionale avendo una sensibilità diversa rispetto agli uomini. Questi ultimi, secondo la Marani, non sono in grado di capire l’universo femminile e la sensibilità e continuano a essere diffidenti. Proprio per questi fattori alcuni sport ancora oggi sono concessi solo agli uomini.

Elisa Calcamuggi, l’unica tra le presenti a non essersi mai occupata di calcio, testimonia una diffidenza verso le donne anche nei motori. Qui domina ancora una visione maschile: c’è lo stesso pregiudizio che si ha nei confronti di una donna al volante. Quando una ragazza è nei box per intervistare deve prima far capire cosa fa, chi è e deve far trasparire la sua professionalità; solo così acquista credibilità.

Altri settori, poi, sono del tutto preclusi al gentil sesso. È il caso del pugilato, per Nicoletta Grifoni l’ambiente più maschilista dopo quello calcistico. Il suo sogno è quello di sentire una donna fare una telecronaca di un incontro di boxe, perché raccontare un evento non è solo una questione di sesso, ma di capacità narrativa, di sensibilità nel creare una storia, nel descrivere l’intensità dello scontro.

Ci sono dunque molte barriere ancora da abbattere. Alle donne, soprattutto per quanto riguarda il cartaceo, vengono affidati ruoli marginali. Non firmano né editoriali né commenti, sebbene in televisione molti programmi live dedicati alla serie A siano condotti da figure femminili. Rosanna Marani, a tal proposito, propone come barriera da abbattere proprio quella della direzione della «Gazzetta dello Sport». I ruoli dirigenziali nel giornalismo sportivo per una donna sono difficili, quasi irraggiungibili e per rincarare la dose molte volte si fa riferimento alla maternità, come se avere figli fosse un limite alla professione. In realtà l’unica cosa che dovrebbe contare è la professionalità.

La professionalità, infatti, dovrebbe essere l’unica arma da usare per affermarsi nel giornalismo sportivo (e non solo) e l’unico strumento a cui ricorrere ogni qual volta si presenti una chance. Per tutto il resto c’è il tempo che aiuta a crescere e migliorare. Come ripete Rosanna Marani, servono ambizione, autostima e una salute di ferro. Bisogna provarci e bussare a tutte le porte perché con la bravura e la caparbietà si arriva lì dove si desidera essere.

CAPITOLO 3

ROSANNA MARANI: LA PRIMA DONNA A SCRIVERE PER LA «GAZZETTA DELLO SPORT»

«In una vita basta un’idea sola, purché si sappia tenerla viva»

(Rosanna Marani, La testa nel pallone)[51]

Rosanna Marani è nota alla storia del giornalismo sportivo per essere stata la prima donna a pubblicare un articolo sulla «Gazzetta dello Sport». Era il lontano 18 novembre 1973. Da allora molte cose sono cambiate, nella società e nel giornalismo e scelgo di intervistarla proprio perché la sua storia è il miglior punto di partenza per poter analizzare evoluzioni e cambiamenti, difficoltà e prospettive di questo mondo.

Nasce a Imola il 12 ottobre 1946 e fin da subito sogna di fare la giornalista. Lo scrive a chiare lettere nel suo libro La testa nel pallone:

Io a cinque anni volevo già, sognavo già, avevo già deciso che avrei fatto questo mestiere. E alla «Gazzetta dello Sport». A quell’epoca il femminismo non c’era. Invece la «Gazzetta dello Sport» c’era già. E mi piaceva. Alla base della mia storia c’era solo questa decisione.[52]

È la storia di una donna tenace che, come ripete spesso durante la nostra chiacchierata telefonica, non ha mai amato i no e le ingiustizie e si è sempre battuta quando sapeva di avere ragione. Ha rappresentato una novità nel panorama italiano, riuscendo a «inserirsi nel mondo del giornalismo sportivo, caso più unico che raro».[53]

È stata infatti la prima a specializzarsi nel calcio, passione ereditata dalla mamma, una grande tifosa che la domenica ascoltava la radiocronaca delle partite mentre lei e suo padre erano in giardino. Molti le hanno chiesto in passato come facesse a sapere così tanto di calcio e quale archivio potesse consultare; ecco cosa ha scritto a riguardo:

Il mio segreto   ̶   lo rivelo   ̶   è la mia mamma. La mia mamma sa tutto di calcio. Tutto. Legge tutto. Ricorda tutto. Potrebbe andare a rischiatutto più sottile, non la fregherebbero mai, diventerebbe ricca a milioni in poche sere. Invece è una tranquilla signora che risponde al mio telefono, ascolta le mie domande, poi si concentra un attimo e, con la voce dolce, di chi parla alla sua bambina, dice il dato certo, la data dimenticata, il risultato, il giudizio, la previsione. Poi, con la stessa voce, vuol sapere come sto, come ho dormito, se ho bisogno di nulla, se qui a Milano fa freddo, se è vero che c’è la nebbia. E in ogni caso che mi riguardi…[54]

Inseguire un sogno ha significato anche lasciare Imola, la sua città e trasferirsi a Milano, dopo aver lavorato per «Il Resto del Carlino» ed essersi spostata anche a Roma per collaborare con diversi settimanali sportivi e occuparsi di cronaca rosa, della quale, però, si stanca abbastanza presto.

È difficile muoversi in una città che non si conosce, soprattutto per una donna, sola, che vuole giocarsi una carta non così semplice. Una donna che non sa cucinare, che non sa lavorare a maglia e che non sogna di scrivere per «Grazia» come più volte le viene proposto. Non è facile farsi prendere sul serio e non è nemmeno semplice trovare la forza e il coraggio per bussare all’unica porta che vuoi che ti si apra, quella del direttore della «Gazzetta dello Sport», allora Giorgio Mottana.

Una volta di fronte a lui, grazie all’aiuto di Gino Sansoni, editore, nonché amico di famiglia della Marani, riesce a spiegare le sue intenzioni. Il direttore è un po’ stranito, ma a cambiare le sorti dell’incontro sono le parole di Rosanna: «Scusi direttore, ma se una ragazza crede presuntuosamente di avere talento e vuole fare la giornalista alla Gazzetta cosa deve fare? Deve prendere per amante Mondadori o deve sposare un Rizzoli?». Queste domande, pronunciate a voce alta, sono state la svolta per ottenere un appuntamento in ufficio. Dapprima Mottana si tira indietro e le dice che può aiutarla chiamando la redazione di «Grazia». Dopo quaranta minuti di lunga discussione, invece, cede e le chiede un’intervista a Rivera, ricordandole, simpaticamente, che il centrocampista del Milan è in silenzio stampa da sei mesi e che non ama i giornalisti, men che meno le donne. È una sfida e Rosanna l’accetta volentieri, senza alcuna esitazione.

La storia dell’intervista è ricca di aneddoti. L’impresa di incontrare Rivera, infatti, si rivela ardua fin dall’inizio, dal momento che il giocatore si nega più volte al telefono. Solo la tenacia le ha permesso di poterlo intervistare, grazie alla complicità di Sansoni e Romeo Benetti.[55] Parte con una vecchia Cinquecento in direzione Ancona e lo incontra nella hall di un albergo. Vede scendere Gianni Rivera dalle scale e chiede a Benetti di presentarle il capitano che si avvicina lì dove c’è il divano. Lo guarda e decide di giocarsi tutte le carte, dicendogli che ha la sua carriera in mano. Si presenta semplicemente per quello che è: una donna di ventotto anni, vedova, con un figlio di un anno e mezzo. A questo si aggiungono due lacrime. Usa tutte le armi a sua disposizione e alla fine raggiunge il suo obiettivo. Rivera le risponde: «Prenda il taccuino!». Missione compiuta: ecco l’intervista. Ora non resta che portarla all’incredulo direttore. Nove colonne, in terza pagina con strillo in copertina e la sua foto pubblicata sulla «Gazzetta dello Sport». Che impresa per una donna!

L’euforia è alle stelle, è domenica e Milano è piena di fogli rosa. È un momento di pura felicità, intaccato ben presto da voci di raccomandazioni, di una relazione segreta con Brera, ma se questo è il prezzo da pagare Rosanna lo paga volentieri. L’importante è aver raggiunto l’obiettivo, essere diventata una giornalista sportiva, essere una professionista corretta, sempre, anche con gli stessi giocatori intervistati. Ed è proprio la correttezza ad averle permesso di acquistare, negli anni, credibilità ai loro occhi.

Scrivere per la «Gazzetta dello Sport», però, non vuol dire essere immune da discriminazioni. Gli uomini non si abituano a questo cambiamento e non le rendono la vita semplice, neppure negli spogliatoi. D’altronde già le è successo di essere vittima di altre ingiustizie, anche da parte della stessa «Gazzetta» che, dopo averla buttata direttamente sul campo e averle fatto guadagnare il tesserino da giornalista professionista (cosa non gradita all’associazione giornalisti), non vuole riconoscerle il praticantato. Solo l’Associazione Lombarda dei Giornalisti e Luigi Marinatto si schierano dalla sua parte e le permettono di sostenere l’esame da professionista, facendole saltare il praticantato. Nonostante questo, quello che accade appena fuori dall’ingresso degli spogliatoi del Dall’Ara di Bologna è paradossale. «E voi, voi che ci fate qua? Alle donne, qui, proibitissimo è l’ingresso».[56] Il carabiniere non cambia la sua posizione nemmeno davanti alle spiegazioni della giovane giornalista che non può nemmeno contare sulla solidarietà dei colleghi maschi i quali non si preoccupano di aiutarla; sono lì come lei e, a differenza sua, vedono loro garantita la possibilità di svolgere il proprio lavoro. Gli anni passano, lei è ufficialmente una giornalista sportiva, ma alcune cose restano invariate:

mi rendo conto, a questo punto, di essere veramente entrata di forza in un mondo assolutamente maschile. Giornalisti sportivi, calciatori, dirigenti, sensali e maneggioni sono tutti uomini. Talmente sicuri di vivere solo tra uomini da non aver previsto, nella tribuna stampa di San Siro, nemmeno una toilette per le signore.[57]

Un mondo maschilista che solo pian piano si è aperto alle donne, che le ha permesso di fare carriera e di affermarsi in questo campo, specializzandosi nel calcio, come prima donna in Italia. Si è scontrata con le più “sacre tradizioni” ed è arrivata lì dove nessuna prima di lei aveva osato spingersi, aprendo la strada a molte colleghe, magari con lo stesso desiderio, ma meno coraggiose o meno tenaci.

Rosanna è stata anche la prima donna a condurre una trasmissione sportiva in tv, Bar Sport, su Telenorditalia, un’emittente lombarda. Si trattava di un talk show dedicato al calcio, allo sport e ai protagonisti degli anni Settanta.

Oggi la Marani è alle soglie dei settant’anni: è una giornalista, donna, mamma e anche nonna; si dedica attivamente al volontariato, alla difesa degli animali, altra sua grande passione, e scrive poesie e aforismi che pubblica sul suo blog «L’orto di Rosanna».[58] Sogna un mondo dove si ragioni non secondo il sesso, ma considerando ogni uomo come un individuo che ha o non ha talento e spera per il futuro di vedere la «Gazzetta dello Sport» diretta da una donna.

Un aforisma, che racchiude in sé il significato delle sue parole e delle sue battaglie, conclude la nostra telefonata: «l’uomo nella sua vita paga il valore, la donna paga sempre il prezzo».

Ha vissuto varie fasi del giornalismo sportivo: dall’emancipazione, alle prime porte aperte, alle ragazze in mostra in tv. Come è cambiato negli anni?

La trasformazione è sempre un processo lentissimo e avviene non tanto per la società che cambia di per sé, ma perché ognuno di noi la fa mutare con le sue scelte, con il suo comportamento, con la tenacia, il talento e l’indignazione. Per il giornalismo sportivo secondo me si deve parlare più un’involuzione che di un’evoluzione. Quando ho iniziato io si trattava di un giornalismo in cui ci si divertiva. Con il passare del tempo, invece, il profitto, che non è mai amico di una crescita umana, ha preso il sopravvento in ogni settore. Diciamo che, invece, c’è stata un’evoluzione di tutto ciò che è la parte industriale e questa presenta sempre un lato positivo e uno negativo. Per quanto riguarda le donne credo che in questi ultimi anni per loro le porte siano aperte. Coloro che desiderano fare un mestiere, che un tempo era solo appannaggio del mondo maschile, oggi possono riuscirci grazie anche al loro talento. Non penso ci siano più settori “proibiti” anche se siamo ancora in una società di non larghe vedute; ritengo, però, che il progresso stia andando avanti e che sia solo questione di tempo.

Cosa pensa del giornalismo sportivo odierno, soprattutto di quello televisivo?

Mi sembra più un giornalismo schematico: c’è la conferenza stampa, devi prima parlare con la società, ti concedono di parlare con il calciatore per cinque minuti, avendo vicino il suo curatore d’immagine e il suo curatore marketing. Tutto questo a scapito dell’umanità, del contatto diretto tra giornalista e intervistato. Sostengo che in televisione il fascino della bellezza spesso prevalga sulla professionalità e sulla competenza. Questo è ovvio e non mi scandalizza. È una legge: il prodotto si deve vendere così come i format televisivi; senza gli sponsor e gli introiti pubblicitari non si va avanti. È la donna che deve scegliere se essere “usata” solo per la propria bellezza o no. Nel lavoro tutti siamo “usati” dagli altri e abbiamo bisogno di una nostra cornice nella quale inserirci. Dobbiamo scegliere quale. Non ci si può scandalizzare a meno che non venga meno la dignità.

Ha affermato più volte che la sua unica arma sia stata quella di aver fatto la voce grossa con gli uomini che incontrava. Che cosa ha significato per lei dover lottare ogni volta per riuscire ad ottenere quello che desiderava?

È stata una lotta sfiancante, ma io sono molto tenace. Quando sento di essere dalla parte dalla ragione, senza ledere la libertà altrui ovviamente, porto avanti la mia rabbia, la trasformo in indignazione e questa mi dà la forza per battermi. Diciamo che c’era e c’è una sfida da vincere: dal mio punto di vista l’idea che la donna non possa fare giornalismo sportivo è retrograda, quindi chi lo pensa deve spiegarmi le sue ragioni dal momento in cui il talento, per me, non ha sesso.

Cosa ha voluto dire per lei essere la prima ad abbattere una barriera come quella del giornalismo sportivo?

Per me ha significato la creazione della mia identità professionale e la possibilità di ottenere quello che desideravo. Ho sempre voluto fare la giornalista sportiva fin da bambina. Amo la parola e la considero il nostro unico patrimonio perché ha una potenza magnifica. Volevo fare giornalismo perché sentivo di poterlo fare, motivata dalla curiosità, dalla voglia di analizzare l’uomo, di indagare nella sua profondità e nelle sue motivazioni. Questo mi ha spinto a fare la giornalista e in un secondo tempo a scegliere il giornalismo sportivo, anche per risanare quella che ritenevo un’ingiustizia. A me i no non sono mai piaciuti.

Ha mai avvertito di portare sulle proprie spalle, in tutto quello che ha fatto, il peso della responsabilità di essere stata la prima figura femminile nel giornalismo sportivo italiano?

Certo! Le pioniere devono avere le spalle forti, una salute di ferro e saper piangere nascondendosi nel bagno. La nostra fragilità è la nostra forza, ma non bisogna mai far vedere agli altri il proprio dolore, ma piuttosto stringere i denti nella propria solitudine. Io mi sono guadagnata il mio tesserino da giornalista professionista perché la «Gazzetta dello Sport» mi prese e mi buttò direttamente sul campo, ma questo all’associazione giornalisti non piaceva. Furono invece l’Associazione Lombarda dei Giornalisti e Luigi Marinatto ad aiutarmi: mi fecero sostenere l’esame da professionista facendomi saltare il praticantato che la «Gazzetta» non voleva riconoscermi. Non solo: cercava anche di liquidarmi come fossi stato un giocattolo rotto. Nella vita, purtroppo, ci sono sempre dei nemici che ti irridono. Ho sempre combattuto contro il concetto maschile di tutelare il proprio tempio: per gli uomini il sesso, il calcio, il lavoro sono un affare solo loro quindi là dove la donna da pioniera tenta di dimostrare (e deve dimostrare il quadruplo) di non essere un’imbecille fa molta fatica. È chiaro che negli anni ho dovuto fare delle cause, mi sono rivolta agli avvocati e sono poi stata sostenuta da chi credeva che avessi ragione. Io dico sempre che la parità arriverà quando anche la donna poco intelligente avrà lo stesso posto di lavoro di un uomo altrettanto poco intelligente.

Al Festival del Giornalismo di Perugia ha parlato della sua esperienza negli spogliatoi. Crede che la diffidenza di allora verso le donne fosse solo una questione di sesso o anche di ignoranza in materia calcistica?

Prima di tutto era una questione di sesso. I sondaggi di allora erano ridicoli. Mi facevano anche delle domande assurde: «Come si organizza? Lavoro o famiglia?». Io rispondevo molto piccata chiedendo all’intervistatore se avrebbe posto lo stesso quesito a un uomo. A mio avviso c’era molta diffidenza perché la tradizione è un masso tremendo da spostare. La donna viene sempre idealizzata con il grembiulino, intenta a cucinare. Anche i sussidiari dei miei figli proponevano questa immagine e mi facevano arrabbiare. Leggevo: «La mamma spolvera. Il papà lavora». Chi lo ha stabilito? Presumo, dunque, che ci fossero molti pregiudizi e che molti pensassero che fossi ignorante perché donna.

Si augura per il futuro di vedere una donna alla direzione della «Gazzetta dello Sport». Quante possibilità crede ci siano di veder realizzato questo suo desiderio? Quali crede siano le prospettive per le donne in questo campo?

Io compirò settant’anni il prossimo 12 ottobre e morirò prima di vedere una direttrice donna alla «Gazzetta», ma sono sicurissima che succederà. Lo credo fermamente perché il progresso va avanti e quindi ci saranno sempre più donne forti, che si preparano, che si sacrificano, che si informano, che lottano per la loro affermazione e prima o poi anche questo muro cadrà. Io incito, dunque, le donne a diventare direttrici della «Gazzetta dello Sport»!

Una delle ultime frontiere sembra essere quella della telecronaca. Cosa pensa di una partita di calcio raccontata da una donna?

Una partita di calcio raccontata da una donna è meravigliosa. Ha otto occhi, non quattro e ha anche il pregio della sensibilità. La donna possiede molto più dell’uomo l’arguzia, ma non voglio essere sessista e sottintendere che l’uomo non la possieda; voglio solo dire che, per la fatica che fa, ne ha di più. Per quanto riguarda la telecronaca è come immaginare che ti buttino nel mare e devi imparare a nuotare senza avere vicino né tuo padre, né tua madre, né un salvagente che possano aiutarti. Devi cavartela da sola ed è chiaro che devi dare fondo a tutte le tue riserve e a tutte le tue risorse. Per questo la donna che fa la telecronaca deve per forza essere un’aquila.

Ha più volte parlato di una sensibilità diversa delle donne nel mondo del giornalismo. Cosa crede che le donne siano in grado di dare in più o di diverso rispetto agli uomini?

Hanno una propria visione. La donna con la “d” maiuscola ha un modo di analizzare e di sintetizzare le vicende assolutamente personale e meraviglioso. L’uomo non mette mai in gioco la sua parte femminile ed è questo che, a mio parere, lo rende distaccato nel mondo della comunicazione. La donna nel mondo del lavoro, del racconto, del giornalismo mette in gioco la sua parte maschile e femminile: non si vergogna di essere dualista, mentre i maschi si vergognano della sensibilità, della tenerezza, vanno diretti al punto e sono più superficiali.

Parla sempre di determinazione, di volontà e di coraggio. Quanto incidono queste qualità in questo mestiere?

Sono imprescindibili! La base, secondo me, è sapere di avere talento. La misura è il senso del ridicolo. Se io sono alta 1.30 m e voglio fare la fantina posso pensare di farlo, ma se sono alta 2 m e peso 90 kg devo fare un’altra scelta perché, altrimenti, sarei ridicola. Ognuno deve ascoltarsi, analizzarsi, scoprendo il suo talento; poi se ne deve assumere la responsabilità perché se il talento è una dote naturale il suo esercizio richiede sacrificio e responsabilità.

CAPITOLO 4

I VOLTI NOTI DELLE PRINCIPALI EMITTENTI TELEVISIVE

Il filo conduttore di questa tesi è quello di analizzare le difficoltà incontrate dalle donne nel giornalismo sportivo: le diffidenze di cui sono spesso vittime, ma anche i pregiudizi contro i quali devono combattere. Gli anni Settanta, in cui le donne dovevano lottare addirittura per trovare spazio nelle redazioni, sono stati superati da un po’. Già nel 1973 ci ha pensato Rosanna Marani ad abbattere il tabù del calcio per le giornaliste, ma da allora cosa è cambiato e cosa, invece, è rimasto invariato?

Oggi siamo nell’era dei social network e della televisione: il modo di fare giornalismo è mutato, sono diverse le tempistiche, e si ha davanti un pubblico con altre caratteristiche e altre esigenze. Alla primordiale e “naturale” diffidenza degli uomini verso la competenza delle donne in materia calcistica, si aggiunge un altro “dilemma”, quello della bellezza: donne solo avvenenti o anche competenti? Naturalmente non c’è da stupirsi dell’interesse che una bella ragazza può suscitare in un pubblico maschile: una qualsiasi giornalista, anche una reporter, se bella, riceve molti apprezzamenti dagli uomini. Quello che caratterizza il giornalismo sportivo è essenzialmente questo: si tratta di un mondo fatto quasi esclusivamente di uomini in cui le donne faticano a trovare spazio, un po’ per quella predisposizione della società che vuole che le femminucce giochino con le bambole e i maschietti con le macchine o in strada tirando calci a un pallone. Quello che quasi nessuno immagina, invece, è che ci sono ragazze che amano il calcio, che guardano le partite, conoscono schemi tattici, allenatori e giocatori e sognano di poter fare della loro passione un lavoro.

Qualcosa negli anni, però, è cambiato e la fiducia data alle donne in materia calcistica è aumentata. Da mondo maschilista si è “concesso” all’universo femminile piano piano seppur con difficoltà, incontrando ancora oggi qualche reticenza. La televisione ha aiutato molto in questo: ha aperto le porte del giornalismo alle donne che si sono viste sempre meno confinate nel settore della moda e dello spettacolo per trovare spazio in politica, nella cronaca e nello sport.

Sebbene si voglia respingere l’idea che alcune vengano reclutate solo per il loro aspetto fisico (ma il fenomeno delle “donne al touch” fa sorgere alcuni dubbi), quello che si vuole indagare è quanto la bellezza sia un fattore negativo o positivo: aiuta o no in questo mondo? È necessariamente sinonimo di ignoranza in materia calcistica? Mi sono rivolta a quelle donne che negli anni hanno avuto la voglia e la caparbietà di lavorare in questo campo, combattendo eventuali pregiudizi e dimostrando che, con la bravura, la passione e la competenza, certi traguardi si raggiungono ottenendo credibilità e rispetto da parte dei colleghi e dei telespettatori. Donne che hanno alle spalle numerosi anni di carriera, che sono state sui campi e, soprattutto, davanti a una telecamera.

Ho scelto di intervistare profili diversi, a volte proponendo le stesse domande, altre strutturando quesiti specifici ad personam, soffermandomi su ciò di cui ognuna si occupa maggiormente. C’è chi conduce i programmi di punta targati Mediaset, chi quelli della Rai, chi si dedica alla conduzione del tg sportivo, chi fa l’inviata. Ognuna racconta una storia diversa, fatta di amore e passione verso il proprio lavoro, ma anche di una vita insolita, in cui non esistono più sabati o domeniche liberi e in cui, una volta arrivate nelle principali emittenti televisive, bisogna dimostrare quotidianamente di sapere per rendere inattaccabile la propria posizione.

1.   MIKAELA CALCAGNO: LA “REGINA” DI MEDIASET PREMIUM

Mikaela Calcagno nasce a Imperia il 30 novembre 1973. Da sempre appassionata di giornalismo comincia a muovere i primi passi in questo campo nella sua città natale. Allo stesso tempo è un’amante del calcio; oltre ad aver giocato per qualche anno, ha seguito ogni tipo di partita, in particolare quelle della Sampdoria, la sua squadra del cuore.

In televisione dapprima ha lavorato per l’emittente Telenord di Genova, poi si è trasferita a Roma. Durante il nostro incontro parla di un papà commercialista che la vuole nel suo ufficio a lavorare con lui e di una ragazza che, invece, sogna di fare la giornalista ed è disposta a tutto, anche ad andare in giro otto ore per la capitale, senza conoscere le strade, con una telecamerina per girare servizi perfino sui tombini. Tornerebbe indietro e rifarebbe tutto quello che fatto, cominciando proprio dalle televisioni private, perché è lì che si impara davvero, per poi approdare a Mediaset grazie a una sostituzione maternità.

In un afoso giovedì pomeriggio di settembre, in pieno centro a Milano, rivela le difficoltà, i pregi e i difetti di questo mestiere, ma soprattutto la felicità di poter fare quello che più le piace: condurre in diretta un programma sul calcio. La sua natura la porta a essere diretta, a fare domande anche scomode, che a volte non sono gradite, ma questo è il suo lavoro, quello che deve fare una giornalista.

Come è iniziata la sua carriera da giornalista?

Ho fatto un po’ il giro di tutte le città e anche di tutti i mezzi televisivi. Ho iniziato a Imperia, che è la mia città, scrivendo per il «Secolo XIX», poi ho intrapreso una collaborazione con una radio di Sanremo, dopodiché sono passata a una televisione privata di Genova. Da qui mi sono trasferita a Roma e successivamente a Milano. Ho cominciato girovagando sia per le città sia attraverso i diversi mezzi di informazione.

Il giornalismo sportivo e in particolare il calcio sono una scelta o sono capitati per caso?

A me il calcio è sempre piaciuto. Mio padre è stato per anni il presidente dell’Imperia quindi a casa il calcio lo vivevamo giorno e notte, a pranzo e a cena. Inoltre, mio fratello era un grande tifoso della Sampdoria e io andavo allo stadio a vedere le partite con lui. Il calcio è una passione e da donna non ha vie di mezzo: o lo odi o lo ami. Le partite o ti piace guardarle e allora sei una tifosa accanita, una critica competente, oppure non le sopporti. Molte le odiano, non sono interessate e non ci vogliono avere a che fare, ma non è il mio caso!

Quali sono i pregi e quali i difetti di questo mestiere?

I pregi e i difetti sono gli stessi di tutti i lavori. Per fare bene questo mestiere devi continuamente studiare, mai sentirti arrivata. Per me il pregio più grande sta nel fare il lavoro che mi piace: già da piccola volevo essere una giornalista e mi piaceva il calcio quindi ora sono quello che ho sempre desiderato essere, ma ovviamente non ho più spazi. È difficile organizzarsi la vita perché non esistono più né sabati né domeniche. Quando uno guarda dall’esterno pensa che sia tutto bello, perché sono una giornalista sportiva e seguo il calcio che è la mia passione. In realtà non ci sono più giorni, non ci sono più orari e quando ti mandano fuori come inviata dopo due ore non puoi dire: «Il mio orario è finito. Devo andare via!». Ci sono state delle volte, infatti, in cui ho dovuto fare degli appostamenti anche fino alle quattro del mattino. L’organizzazione della vita, dunque, diventa difficile.

Il binomio donna-calcio per molti uomini è quasi sempre sinonimo di bellezza più che di competenza. Qual è secondo lei la giusta formula per abbattere questo pregiudizio?

Se ti dicessi che, in televisione soprattutto, la bellezza non aiuta sarebbe un’ipocrisia. Secondo me, però, come nella vita, senza la testa non è niente. Quello che conta è come una ragiona, come usa il cervello, come si comporta. Può essere un mezzo per arrivare, ma è anche un’arma a doppio taglio perché, se poi non sei supportata da un altro tipo di caratteristiche, la bellezza di per sé non è sufficiente. Non puoi andare in video senza essere preparata. Io personalmente il calcio lo vivo, lo seguo. Quando sto a casa guardo qualsiasi partita, a partire dalla Lega Pro! Prima andavo sui campi anche a vedere la terza categoria. Ora seguo la Premier, la Bundesliga e mi preparo davvero tanto. Anche al mattino prima delle trasmissioni mi documento: alle sette ho la sveglia, leggo la rassegna stampa, tutta la settimana mi tengo aggiornata. Inoltre, io vivo anche la vita di redazione perché non conduco solo programmi. Quando non preparo la trasmissione, faccio i servizi, presento il telegiornale e non posso non essere a conoscenza di quello che accade. In conclusione, la bella presenza ti aiuta, ma non è tutto.

Ha mai pensato di avvicinarsi al mondo della telecronaca? E cosa pensa della telecronaca al femminile di una partita di calcio?

A volte a me piace sentire le donne che fanno la telecronaca, ma sinceramente non ho mai pensato di occuparmene. In realtà gli highlights li ho già fatti e me la cavo, anche se non bene come altri miei colleghi uomini. Non è mai stato un mio obiettivo perché secondo me ognuno si sente tagliato per una cosa piuttosto che per un’altra. Ad esempio, io preferisco la trasmissione live al telegiornale, ma queste sono caratteristiche naturali di ognuno. In generale, credo che nei riguardi della telecronaca ci sia ancora un po’ chiusura: sono poche le colleghe che le fanno, un po’ per scelta, un po’ per l’assenza di spazi da parte delle emittenti. Ci sono dei lavori che si pensa siano prettamente maschili e la telecronaca fino a ora è uno di quelli.

Si sente mai in soggezione o in imbarazzo durante la conduzione delle sue trasmissioni dovendo interagire esclusivamente con uomini?

No, assolutamente no! Non ho questa predisposizione caratteriale. Alla fine sono sempre io quella che litiga! Basta vedere quello che è successo quest’anno.[59] Anzi, durante le trasmissioni, forse esce fuori il mio vero carattere, a volte molto compagnone, caratteristica più tipica di un uomo che di una donna. Io non ho mai sofferto di soggezione, non ho mai pensato: «Oddio sono tutti uomini!». Mi sento sempre perfettamente a mio agio.

Da qualche anno a questa parte è la “regina di Mediaset Premium”. Cosa significa per lei essere la conduttrice dei principali programmi di Mediaset dedicati alla serie A? Può tracciare un bilancio di questi suoi ultimi anni di carriera?

Io sono arrivata a Mediaset per una sostituzione maternità e ho cominciato a fare tutto quello che mi chiedevano: dall’inviata, alla conduzione del telegiornale, ai servizi. È ovvio, però, che la mia natura mi portava a condurre più un programma live dell’evento. Secondo me ognuno di noi nasce avendo una passione e una predisposizione. Non è vero che tutti sappiamo fare tutto. Ognuno deve scegliere la sua strada. La mia era questa e quando mi è capitata l’occasione l’ho sfruttata. Prima ho cominciato con l’Europa League, poi con anticipi e posticipi che faccio da un po’ di anni per cui al momento sono contenta quello che faccio. Certo, tutti devono crescere e tra qualche anno mi vedo a condurre un altro tipo di trasmissione.  Magari tra un po’ non mi occuperò più di sport o mi dedicherò a un programma di approfondimento, il lunedì o il martedì, che si occuperà di quello che è successo nella giornata calcistica. Io ho cercato con il mio lavoro e con le mie caratteristiche di occuparmi di quello che più era tagliato su di me e di questo sono soddisfatta perché adesso faccio quello che mi piace, poi un domani chissà.

Se pensa al futuro immagina trasmissioni sportive sempre più affidate alle donne o crede che la diffidenza verso il gentil sesso continuerà a prevalere?

Non ci sarà diffidenza perché tutte le emittenti hanno dimostrato di essersi aperte. Anzi, adesso c’è quasi sovrabbondanza di donne. Se vedi le trasmissioni calcistiche di punta di tutte le emittenti televisive sono presenziate da donne. Credo che le barriere della conduzione siano state abbattute. Poi magari un giorno ci saranno anche più telecroniste. Il calcio non è più visto in senso esclusivamente maschile anche se, a volte, il modo di interagire di certi allenatori e giocatori con gli uomini è diverso rispetto a quello che hanno con le donne.  C’è sempre un po’ di reticenza e dicono: «Però voi non avete giocato a calcio!». A parte che io a calcio ci ho giocato…

A tale proposito una curiosità. La scorsa stagione è stata protagonista di alcuni scontri verbali con gli allenatori di Juve, Inter e Milan. Pensa che le loro risposte alle sue domande siano frutto della diffidenza nei confronti di una presentatrice donna o siano dettate dalla rabbia del momento?

Io credo che un allenatore si rapporti meglio con un uomo e soprattutto con gli ospiti in studio che sono tutti allenatori o ex giocatori. Certe critiche da loro le accettano più volentieri piuttosto che da una conduttrice. Penso, però, che ci sia anche un insieme di fattori: quest’anno, come l’anno scorso, per una questione di diritti, siamo i primi a intervistare il tecnico nel post partita. Vengono prima da noi e poi passano dalle altre emittenti quindi la loro è una reazione a caldo e ci sta che una sconfitta dia un po’ fastidio. Chiudi la partita e dopo due minuti sei davanti alle telecamere. A volte sei infastidito, come capita a tutti nella vita, e quando arriva una che ti fa una domanda che non vorresti sentire rispondi male.  Nei vari passaggi agli altri inviati la rabbia diminuisce e uno si rasserena. Poi, ripeto, gli allenatori accettano più volentieri una domanda da Sacchi piuttosto che da parte mia, ma questo gioco delle parti lo capisco e lo accetto.

2.   BEATRICE GHEZZI: LA DONNA DEL TG SPORTIVO

Beatrice Ghezzi nasce a Milano il 27 aprile 1969. Dopo aver conseguito la laurea in Lettere Moderne presso l’Università Statale di Milano, si iscrive alla scuola di giornalismo. Nel frattempo, però, ha già mosso i primi passi in questo campo collaborando con alcuni giornali locali.

Durante la nostra chiacchierata racconta di un giornalismo diverso da quello dei suoi inizi, un giornalismo meno romantico e più social. Allora era una giovane ragazza con tanta voglia di fare e di dimostrare, disposta a uscire, spostarsi e andare sui campi. Oggi le cose sono diverse e con lei affronto un tema importante per una donna, quello della maternità. Da quando è diventata mamma sostiene di fare meno la giornalista: ora si occupa delle scalette, di scegliere quali pezzi mandare in onda, di quale taglio dare loro. Si dedica prevalentemente alla conduzione del tg perché l’arrivo di una figlia cambia tutto e ti impone delle scelte: far convivere il giornalismo con l’essere madre è difficile e per questo ha preferito un “impiego” più da scrivania che da inviata sui campi.

Nonostante i cambiamenti, nonostante il giornalismo odierno, fatto più di ragazze che puntano sulla bellezza che sulla conoscenza e la competenza in materia calcistica, si dice convinta, ancora adesso, che se uno è bravo in un modo o nell’altro, seppur impiegandoci più tempo, arriva.

Come è iniziata la sua carriera da giornalista?

Volevo diventare giornalista e ho iniziato a collaborare con un giornale locale, un bisettimanale, in provincia di Vercelli: mi occupavo di tutto tranne che di sport. All’inizio scrivevo prevalentemente di spettacolo. Successivamente ho fatto il test per l’ammissione alla scuola di giornalismo IFG[60] e sono stata presa. Ho iniziato a seguire i corsi e ho cominciato a lavorare sulla voce per poter provare a fare sia radio che televisione. Ho fatto dizione, l’insegnante mi ha detto che avrei potuto intraprendere la carriera televisiva e sono stata presa per un primo stage ad Antenna 3 Lombardia. Al secondo anno c’era la possibilità di lavorare nel mondo dello sport tramite uno stage a Mediaset: ci sono andata e poi sono rimasta lì.

Il giornalismo sportivo è una scelta o è capitato per caso?

Più o meno entrambe le cose. Ho sempre fatto sport, sono sempre stata un’appassionata e l’ho sempre seguito, ma allo stesso tempo ho iniziato a occuparmi di giornalismo sportivo casualmente perché nel giornale locale dove lavoravo una domenica bisognava seguire una partita di calcio di ragazzini e non c’era nessuno. Mi hanno detto: «Visto che sei appassionata e lo segui, vai!». Da lì ho cominciato a seguirlo sempre più e sono entrata nella scuola di giornalismo svolgendo il tema sportivo.

Il giornalismo sportivo oggi è lo stesso che ha conosciuto lei agli albori della sua carriera?

Questo mestiere negli anni è cambiato notevolmente. Quando ho iniziato io, ormai venticinque anni fa, era un’altra cosa. Ora è molto diverso: non è più il lavoro di giornalista molto romantico che vivevo io all’inizio. Adesso, oltretutto, sono capo servizio: praticamente non esco più come inviata, vado in redazione, decido le scalette dei telegiornali, assegno i pezzi agli altri, stabilisco i titoli e conduco. È un lavoro molto diverso. Io ormai scrivo pochissimo nonostante avessi iniziato questo mestiere per scrivere.

È difficile per una donna affermarsi nel giornalismo sportivo?

Adesso è molto più semplice. Quando ho iniziato io era più difficile. Vent’anni fa non eravamo ancora tantissime e, soprattutto a livello locale, dovevi dimostrare molto. Dovevi dare prova di essere competente, che ti piaceva quello di cui parlavi ed era necessario lavorare il doppio rispetto agli uomini.

In quanto donna, in un mondo prevalentemente maschile, ha mai avuto la sensazione di essere ritenuta poco credibile rispetto ai suoi colleghi dell’altro sesso? Se sì, perché?

Il problema è uno: se tu lavori bene, ti informi e fai questo mestiere perché lo sai fare la credibilità te la crei da sola. Se tu vai in redazione e sei solo una bella ragazza che sa muoversi bene davanti alla telecamera nessuno ti darà credibilità. Io credo che sia una cosa tipica di qualsiasi lavoro. Molte volte gli uomini dicono che una donna non capisce per partito preso, ma le persone con cui lavori lo sanno se tu sei credibile, se tu conosci quello di cui parli o meno. Poi ci deve essere anche un minimo di umiltà per cui anche noi dobbiamo renderci conto di quali sono i nostri pregi e quali i nostri difetti. Io credo che noi donne molte volte siamo in grado di vedere una notizia con una sensibilità un po’ più diversa e meno tecnico tattica, ma questo non vuol dire non sapere le cose.

All’esterno si tende sempre a fare distinzione tra uomo e donna sulle competenze in materia calcistica. All’interno del mondo del giornalismo sportivo, tra colleghi, esiste davvero questa distinzione?

All’interno della redazione questa distinzione esiste perché i colleghi maschilisti ci sono sempre e in qualsiasi campo. Si sente meno se i colleghi hanno lavorato con te e sanno dove puoi arrivare e cosa puoi fare.

Essendo conduttrice di Sport Mediaset accompagna milioni di appassionati di sport quasi ogni giorno. Quali sono le credenziali e le competenze necessarie per affrontare questo ruolo?

Ci vuole una preparazione di base per cui bisogna leggere i giornali tutti i giorni, sempre. Noi dobbiamo arrivare la mattina in redazione sapendo già tutto, ma non solo quello che c’è scritto sui quotidiani. Bisogna essere aperti a trecentosessanta gradi, soprattutto ai social perché ormai ci sono loro e i siti internet. Devi comunque rimanere sempre aggiornata e avere una competenza di base su tutti gli sport. Chiaramente ci sono quelli di cui sai meno e quelli che conosci meglio, ma se sai che devi fare un servizio ti prepari ed è tutto risolto. Io rimango della mia idea: aggiornamento e preparazione sempre.

Per una giornalista sportiva è più facile condurre un tg o lavorare sul campo come inviata?

Sono due cose molto diverse. Non credo siano né facili né difficili entrambi. Dipende tutto dalla preparazione: se uno deve fare l’inviata deve sapere che deve muoversi in un certo modo, se deve condurre un tg in un altro. Dipende anche dalla predisposizione di ognuno. Per le ultime generazioni cambiano le prospettive. Per loro conta solo l’apparire. La preparazione e la competenza vengono dopo e non sono necessarie quando, invece, dovrebbero essere fondamentali. La differenza si nota nel giornalismo televisivo: ormai se un telespettatore fa zapping vede numerose figure femminili nei programmi sportivi: tutte belle e rifatte perché altrimenti non potrebbero andare in video. Questo è quello che decide e vuole chi guarda la televisione, ma otto su dieci di quelle ragazze non sono mai state su un campo di calcio, non hanno mai praticato sport. Stai sicura che se tu intervistassi quelle che ci sono adesso lì da noi a Mediaset non avresti bisogno di sentirti dire che non sanno niente di calcio perché lo capiresti subito. Adesso la figura della giornalista è associata a questo, soprattutto a livello televisivo.

Nella scorsa stagione Gaia Brunelli ha seguito per Sky le telecronache del Parma. Cosa pensa della telecronaca di una partita di calcio al femminile? Crede sia una nuova frontiera per le donne?

Non so se sono un po’ tradizionalista, ma sulle telecronache preferisco ancora la voce maschile perché secondo me le donne possono dare molto di più come bordocampiste: a livello di empatia, di osservazione del particolare sono molto più valide. Poi ci sono anche telecroniste brave e sicuramente si va verso un futuro in cui sarà più facile anche per le donne che vorranno lavorare in questo campo realizzare il loro desiderio, ma io esprimo la mia preferenza.  L’importante, secondo me, è che ognuna di noi sappia quali sono i suoi limiti e le sue capacità. Personalmente, se mi chiedessero di fare una telecronaca rifiuterei perché non mi sento in grado. Potrei anche farla, ma non sarà mai al livello di quello che mi viene chiesto.

3.   SIMONA ROLANDI: LA GAVETTA, LA SCUOLA DI PERUGIA E LA RAI

Simona Rolandi nasce a Roma il primo giugno 1973. Ama lo sport fin da bambina e pratica la pallavolo per tanti anni, arrivando a giocare in serie C. Contemporaneamente sogna di diventare una giornalista e di poter raccontare i vari eventi sportivi, di essere a contatto con allenatori, giocatori e atleti.

Terminato il liceo, prima pensa di iscriversi a Scienze della Comunicazione, poi opta per una più “sicura” Economia e commercio. Si laurea a ventiquattro anni con 110 e lode all’Università Sapienza di Roma, ma il suo unico sogno resta il giornalismo. Le offrono contratti a tempo indeterminato in banca, ma non è questo quello che vuole. Anche l’ATAC, l’azienda dei trasporti romana, dopo uno stage presso l’ufficio stampa la vuole tra i suoi dipendenti, ma Simona rifiuta ancora una volta. Nel frattempo si iscrive alla scuola di Giornalismo di Perugia, supera le selezioni e da quel momento, nonostante diversi anni di gavetta, la strada è meno burrascosa. Sono anni di precariato, è vero, ma questi la portano, però, a raggiungere il suo obiettivo: lavorare per e nella redazione di Rai Sport.

La sua è la storia di una ragazza coraggiosa e volenterosa, in grado di fare sacrifici e di alimentare sempre il suo sogno: dai numerosi articoli scritti senza retribuzione, alle ore passate in macchina per andare e tornare dalla redazione di «Rete Oro», al lavoro al pub come cameriera per potersi mantenere e continuare a inseguire il sogno, al suo primo lavoro pagato a «Roma Channel».

Oggi è una conduttrice e inviata della Rai. Per lei due mondiali alle spalle come inviata, le Olimpiadi di Rio 2016, la conduzione del «Caffè degli Europei» per tutta la durata degli europei in Francia nell’estate 2016 e tante altre trasmissioni tra cui «Dribbling», «La Domenica Sportiva Estate», «Stadio Sprint», «Replay», «Notti Europee», «Notti Mondiali».

Durante la nostra conversazione Simona racconta della sua gavetta, dei suoi esordi, delle difficoltà, ma anche delle soddisfazioni raggiunte in questi anni alla Rai.

Il giornalismo sportivo è una passione e una scelta. Come e quando nasce questo amore e come lo hai coltivato nel tempo?

Nasce fin da quando ero piccola: si trattava di un amore e di una passione per lo sport in generale. Dai dieci-dodici anni ho iniziato a praticare la pallavolo e parallelamente seguivo il calcio; registravo «La Domenica Sportiva» sui VHS e andavo allo stadio. Giravo per casa con un microfono giallo e blu e intervistavo le persone della mia famiglia. Il mio sogno era quello di andare in giro per sentire i pareri degli sportivi, dei calciatori e di occuparmi di questo ambiente. Ai miei tempi c’erano dei fascicoli in edicola che suggerivano come diventare giornalisti. Io li compravo e ancora li conservo. A un certo punto ho cercato di capire quale fosse la strada da intraprendere sempre perseguendo l’obiettivo dello sport. Prima ho pensato di scegliere la facoltà di Scienze della Comunicazione, poi ho optato per Economia e Commercio, perché non avrei mai scommesso un euro sul fatto di diventare giornalista. Presa la laurea, avevo sempre come pensiero fisso il giornalismo; ho scoperto l’esistenza della scuola di Perugia e ho tentato la selezione. Ero sfiduciata, ma riuscii ad entrare, arrivando tredicesima. Io ci ho creduto sempre, passando, però, notti insonni. A ventiquattro anni ho scelto di provarci. Contemporaneamente scrivevo ovunque e di qualsiasi cosa: di cavalli, di sport, di calcio, di pallavolo di cronaca con un compenso pari a zero. Ho lavorato anche a «Rete Oro», a 50 chilometri da casa mia. Spendevo soldi per la benzina senza essere retribuita e la sera facevo la cameriera oltre che la figurante in Rai per racimolare qualche soldo. È un sogno che ho perseguito con ogni mezzo ed entrando in quella scuola ho dato una svolta alla mia vita. Ho fatto stage alla radio, al Tg1, ma io volevo Rai Sport e ho cercato di ottenerne uno presso la redazione sportiva. Il primo contratto me lo propose il tg regionale del Lazio e lo rifiutai. Poi sono stata chiamata dalla redazione di Rai Sport e così iniziato la trafila dei contratti a tempo determinato. Il precariato è durato otto anni, ma alla fine mi hanno assunta. Ho cominciato dal nulla e sono arrivata a fare quello che volevo e questa cosa mi riempie di gioia ogni giorno. Io mi considero ancora una privilegiata perché quando sei l’inviata per l’Olimpiade hai l’onore di raccontare certe emozioni ai telespettatori. È una cosa talmente bella che anche i sacrifici passano in secondo piano. Lo stesso vale per le partite. Stare sul campo non è semplice, ma io sono pagata per vedere incontri di serie A mentre la gente paga per andare allo stadio. A me spetta commentare le partite, è vero, ma è una cosa bella.

Quali sono i pregi e quali i difetti di questo mestiere?

Questo mestiere ti dà tantissimo, ma ti toglie altrettanto a livello personale; spesso ti fa viaggiare e ti costringe a stare lontano dalla famiglia, a mancare appuntamenti importanti come è successo per il matrimonio di mia sorella. Io ero a Monaco di Baviera per il Mondiale 2006 e non riuscii a essere presente. Diventa difficile costruire una famiglia, anche perché non ci sono orari. Non si sa mai con certezza a che ora si finisce perché potrebbero esserci mille inconvenienti. Ci sono tanti lati positivi, compresa la possibilità di conoscere campioni, di scoprire lo sport vero, di fare delle cose che hanno un grande interesse a livello di diffusione, ma dall’altro lato della medaglia c’è la vita personale. Io voglio trovare un giusto compromesso tra la famiglia e il lavoro. Sogno, infatti, di diventare mamma, ma questo non è un mestiere che aiuta.

È difficile per una donna affermarsi nel giornalismo sportivo?

Non è facile. Ci vuole uno studio meticoloso per essere credibili. Affinché uno lo diventi ci vogliono affidabilità e preparazione. Non puoi sbagliare mai perché a noi donne non è concesso: se capita a un uomo è “normale” perché può succedere di commettere un errore, se accade a una donna è perché da bambina di divertiva con le bambole e non conosce il calcio perché non giocava a pallone. Noi non abbiamo margine di errore, anche se adesso le donne, soprattutto in studio, la fanno da padrona. C’è tanta gente, da Monica Vanali a Francesca Benvenuti a Donatella Scarnati, che sui campi è in grado di stare, ma è difficile e complicato; bisogna studiare tantissimo. Io, ad esempio, vedo tantissime partite. Ancora oggi se vado allo stadio mi posiziono sempre vicino a un collega più esperto perché può dirmi qualcosa che arricchisce il mio bagaglio. Se pensi di essere arrivata e di aver capito già tutto, sbagli completamente.

Ha affermato che le donne hanno una sensibilità diversa. Cosa crede siano in grado di dare in più o di diverso rispetto agli uomini in questo mestiere? Cosa invece possono imparare da loro?

Dagli uomini è possibile imparare alcuni aspetti tattici che a noi sfuggono, ma non perché non abbiamo giocato. Semplicemente abbiamo un occhio diverso. Come è posizionato il centrocampo, se due esterni invertono la loro posizione, se il modulo cambia: questo l’uomo lo percepisce meglio. Io non nego che sia così. A volte la donna non si accorge di alcuni spostamenti dei giocatori in campo, mentre l’uomo li vede subito. Sono delle piccole cose, i dettagli che fanno poi la differenza. Le donne, invece, hanno una sensibilità particolare, quella di una mamma. Nel raccontare un avvenimento, un episodio hanno sicuramente una marcia diversa, non qualcosa in più o in meno rispetto agli uomini; semplicemente danno un altro taglio alla notizia: percepiscono cose che l’uomo non vede e, a livello emozionale, secondo me, possono dare qualcosa in più.

Preferisce condurre una trasmissione o lavorare come inviata? Pensa che uno dei due lavori sia più semplice?

Io preferisco condurre, stare in studio e gestire degli ospiti. Per tanti anni ho condotto «Dribbling», «La Domenica Sportiva Estate», «Replay», «La giostra dei Goal», «Notti Mondiali», «Notti Europee». Preferisco fare questo tipo di lavoro perché la telecamera non mi crea alcuna soggezione, anzi. La luce rossa mi carica, mi vivacizza ancora di più. Mi piace anche essere la padrona di casa: gestire gli ospiti, gli interventi, le domande. Parlo in questo modo, però, perché non andrò mai a fare una trasmissione senza essere preparata. Noi in Rai non abbiamo autori che suggeriscono; quello che si sente è frutto di quello che chi conduce sa. Fare l’inviata, invece, è una cosa molto bella, adrenalinica, anche se non sai mai quello che può succedere. È un altro tipo di lavoro, molto più stancante a livello fisico perché devi resistere anche alle intemperie. Ci si deve spostare da soli e affrontare tutto quello che ci si trova davanti. Per fare un esempio, domenica scorsa[61] ero a Firenze come inviata per il posticipo e a mezzanotte sono dovuta ripartire, da sola, con la macchina e guidare in autostrada perché il lunedì mattina avevo una riunione. Non è il massimo per una donna.

Cosa pensa della telecronaca di una partita di calcio al femminile? Crede sia una nuova frontiera per le donne?

Io, negli anni di precariato, feci anche un provino a Sky per le telecronache perché loro avevano una bella idea, quella di lanciare le donne in questo mondo. Dopo fu abbandonata e, a mio parere, giustamente. È una frontiera che mi piacerebbe venisse superata, ma non so a livello televisivo quanto possa funzionare; siamo talmente abituati a sentire un uomo che racconta una partita di calcio, è un retaggio talmente lontano, che secondo me è difficile che questa barriera venga eliminata. Ci sono delle colleghe bravissime, ma io non credo verrà facilmente concessa loro la possibilità di fare una telecronaca di serie A.

Il binomio donna-calcio per molti uomini è quasi sempre sinonimo di bellezza più che di competenza. In base alla sua esperienza e alla sua carriera, conferma o smentisce questa affermazione?

Dipende da come uno si pone. Se io voglio fare in modo che la gente accendendo la tv si focalizzi su qualche parte del mio corpo piuttosto che su quello che dico è ovvio che questo binomio diviene veritiero. Io non ho mai ostentato; anche quando vado in giro so che devo avere sempre un certo comportamento. Il mondo del calcio è un mondo di uomini a cui, naturalmente, piacciono le belle donne. Se una ragazza si presenta in un certo modo, vestita adeguatamente, nessuno può permettersi di dirle niente. Ricordo che al Mondiale del 2006 una giornalista messicana, bellissima, venne allontanata da un campo di allenamenti. Si era presentata con abiti succinti e i giocatori, anziché allenarsi, la guardavano. C’è da dire, comunque, che un bell’aspetto aiuta perché chi va in televisione è giusto che sia curato. Bisogna sempre ricordarsi, però, che noi siamo un veicolo per comunicare delle informazioni e non siamo in vetrina.

Da inviata ha mai sentito la pressione di dover fare la domanda “giusta” per non essere mal giudicata da un mondo, quello del calcio, prevalentemente composto da uomini?

Ultimamente, date anche le risposte date da Mancini e Mihajlovic a Mikaela Calcagno, sembra che uno debba stare più attento. Secondo me, se fosse stato un uomo a fare quelle domande gli allenatori non avrebbero risposto in quel modo. In ogni caso, io non mi sento sotto pressione perché mi rapporto con degli uomini; piuttosto mi sento sotto pressione perché ci sono i telespettatori che guardano il programma; io entro nelle loro case e ho il dovere di farlo in punta di piedi. Semplicemente non voglio sbagliare al cospetto di tante persone che mi ascoltano.

Durante la sua carriera in che modo e quanto è cambiato il giornalismo sportivo? Cosa pensa del giornalismo televisivo odierno?

È cambiato in maniera radicale, a partire dai rapporti con le società, con i giocatori. Adesso se un giornalista non passa dall’ufficio stampa non può fare niente. Prima ci si metteva d’accordo direttamente con il giocatore che normalmente era anche un amico. In questo modo pubblicavi il tuo articolo sui giornali e anticipavi gli altri colleghi. Oggi questa cosa è impensabile. È impossibile mettere a frutto dei rapporti personali. Con il problema dei diritti televisivi, delle emittenti che hanno la precedenza in base a quanto pagano, è completamente cambiato il senso di questo mestiere. La stessa conferenza stampa, ora, è mediata. L’accesso ai giornalisti in alcuni casi è concesso, ma non fanno riprendere con la telecamera. La società manda il video per e-mail, dandosi anche la facoltà di tagliare alcune dichiarazione se lo ritiene necessario. Siamo quasi arrivati alla gestione assoluta della comunicazione da parte delle squadre di calcio. In ogni caso, penso che l’utilizzo del giornale cartaceo non passerà mai, ma anche per loro è difficile oggi lavorare; il giorno dopo la carta stampata è vecchia perché Internet ha già detto tutto. C’è stato un cambio radicale e nel mondo del calcio sono mutate le prove di forza. Ora la Rai viene dopo altre emittenti perché queste, essendo private, pagano cifre spropositate per le esclusive.

4.   MONICA VANALI: I TG SPORTIVI, I POSTICIPI E LA NAZIONALE

Monica Vanali nasce a Padova il 9 marzo 1968. Da sempre appassionata di sport, gioca a pallavolo per tanti anni, militando anche nel campionato di serie C. Inizia la sua carriera giornalistica con «Il Gazzettino», giornale della sua città. Successivamente collabora con Teleuropa e Diffusione Europea, due reti televisive venete.

Durante una sua trasferta a Monza come inviata, per seguire il Padova in Coppa Italia, viene intervistata da Carlo Pellegatti. In quel periodo a Telelombardia cercavano una donna, giornalista, che parlasse di calcio: approda alla trasmissione «Qui studio a voi stadio».  Nel 1990, invece, passa alle reti Fininvest e qui inizia la sua lunga “scalata” televisiva: «L’appello del martedì», «Studio Sport», «Pressing Champions League», «Controcampo», «Serie A» sono solo alcune delle trasmissioni che conduce o a cui partecipa, ma la sua vita è prevalentemente sui campi, come inviata.

Oggi è tra le più note giornaliste sportive italiane: è conduttrice, inviata, autrice di molti servizi. Durante la nostra chiacchierata emergono tutto il suo entusiasmo, la passione, la tenacia e la professionalità. È la storia di una donna che ha scelto di dedicarsi interamente al suo lavoro: non una famiglia, non un compagno, non dei figli. Solo il calcio, una vita frenetica, una valigia sempre pronta e la continua disponibilità a partire. Monica è questo e tanto altro, quello che racconta durante la nostra chiacchierata.

Il giornalismo sportivo è una scelta o è capitato per caso?

In parte è capitato per caso. Io sono sempre stata un’appassionata di sport, l’ho praticato giocando a pallavolo e arrivando fino alla serie C, ma in realtà non ho mai pensato all’altra parte, quella fatta dal giornalismo. È accaduto questo: essendo di Padova, andavo spesso a seguire le partite di calcio della squadra della città; poiché molti giornalisti vedevano la mia passione e sentivano come io parlassi di calcio, mi hanno chiesto di collaborare con «Il Gazzettino di Padova». Tutto è nato da lì e così ho trasportato la mia passione sportiva, la mia esperienza in prima linea come atleta, al giornalismo.

Quali sono i pregi e quali i difetti di questo mestiere?

Per quanto riguarda i pregi, se ti piace questo lavoro e hai l’opportunità e la possibilità di farlo, giri il mondo e tutta l’Italia, conosci molta gente e fai la cosa che ami di più, parlare di sport. Di contro, non ha mai tempo libero: fare la giornalista vuol dire non timbrare il cartellino, non avere orari fissi e questo è difficile. Io non sono sposata e non ho figli proprio per questo motivo, perché è impossibile conciliare tutto. Si tratta di scelte di vita. È un lavoro fantastico, meraviglioso, ma se mia nipote mi dicesse: «Zia, voglio fare la giornalista!», le direi: «Sparisci, cambia lavoro!» perché, una volta fatta questa scelta, non hai più vita. Io ti parlo del mondo della televisione; probabilmente per la carta stampata ci sono orari diversi, ma per una donna che è sposata e ha dei figli fare la giornalista è devastante. Bisogna, comunque, fare sempre un distinguo tra le varie sfaccettature di questo mestiere perché è fondamentale

È difficile per una donna affermarsi nel giornalismo sportivo?

Sì, soprattutto nell’ambiente del calcio che è prevalentemente maschile. Io non dico che per me sia stata facile. Sono a Mediaset da ventiquattro anni, ma quando ho iniziato ero una delle pochissime che seguiva le partite, che faceva le trasferte, che scriveva di calcio e ne parlava. Non era facile perché a quei tempi anche i giocatori ti guardavano in modo strano. Adesso, invece, la cosa bella per me, per quello che mi dicono gli altri, è che apprezzano la mia professionalità e la mia serietà. Io non sono mai stata una che correva dietro i giocatori come invece è successo, e accade, a tante altre ragazze entrate nel mondo del giornalismo. Loro pensano che, facendo parte di questa realtà, possono conoscere i calciatori e diventare le loro fidanzate. Questa è proprio la cosa da non fare.

Preferisce condurre un tg o lavorare come inviata? Pensa che uno dei due lavori sia più semplice?

Non è semplice nessuno dei due perché sono realtà diverse con tempi diversi. Mi piace stare in studio perché lì si ha poco tempo e in quei pochi minuti devi trasferire alle persone che stanno a casa la tua passione, la tua conoscenza, la notizia, che è fondamentale. Anche in poche righe devi far capire al telespettatore che sai quello di cui parli. A me, invece, piace stare fuori e fare l’inviate perché vivi quella realtà in cui ti trovi. Per esempio, sono reduce dagli «Europei 2016»: sono partita il 18 maggio, quando c’era il primo stage a Coverciano di Antonio Conte, e sono tornata a casa il 13 luglio, dopo la finale tra Portogallo e Francia. Sono stata via quasi due mesi. È stato molto faticoso, ho dormito due-tre ore a notte, ma è stata un’esperienza bellissima, un sogno, perché ho vissuto a contatto con giornalisti stranieri e con la mentalità straniera. Mi sono confrontata con un panorama diverso ed è stata una crescita professionale. In questo lavoro, e non è una frase fatta, non si finisce mai di imparare perché ogni giorno, stando fuori e parlando con gli altri colleghi, guardi gli altri, capisci che tipo di giornalismo fanno e impari qualcosa di nuovo. È bellissimo e stupendo. Io auguro a qualunque persona di avere questa occasione e di affrontarla con professionalità.

Cosa pensa della telecronaca di una partita di calcio al femminile? Crede sia una nuova frontiera per le donne?

A me non piace. Ho tanto rispetto per le colleghe, ma io parto sempre da un concetto di base che vale anche per me tante volte quando si parla di tattica. A volte mi fermo e cerco di capire alcuni movimenti che fanno in campo i giocatori. Gli uomini, sin da bambini, prendono la palla con il piede mentre noi siamo abituate a prendere la palla con le mani; questa è la natura. Non voglio dire che ci siano donne che non possono parlare di calcio, io ne sono l’esempio, e rispetto le colleghe che stanno facendo le telecronache, ma una partita è bello sentirla commentare da un uomo. Una ragazza può aver fatto anche la calciatrice, ma il calcio per me è maschile. Credo anche che ci siano delle calciatrici bravissime: ho visto una partita di calcio femminile alle Olimpiadi di Rio con delle donne stupende, che giocavano anche meglio degli uomini, ma penso che in questo momento la società non sia ancora preparata a sentire una donna che commenta il calcio. Noi donne lavoriamoci, ma abbiamo bisogno ancora di un po’ di anni.

Il binomio donna-calcio per molti uomini è quasi sempre sinonimo di bellezza più che di competenza. In base alla sua esperienza e alla sua carriera, conferma o smentisce questa affermazione?

È una sciocchezza devastante! La bellezza nel calcio è forte perché noi abbiamo fatto sì che questo concetto si inculcasse nella società. Io conosco tante colleghe della carta stampata che non sono bellissime, ma hanno una bravura pazzesca. Lasciamo perdere le donne belle che parlano di calcio e piuttosto capiamo che quello che conta è che una ragazza ne sappia parlare e ne capisca.

All’esterno si tende sempre a fare distinzione tra uomo e donna sulle competenze in materia calcistica. All’interno del mondo del giornalismo sportivo, tra colleghi, esiste davvero questa distinzione?

Certo che esiste! O meglio, i giornalisti preferiscono sempre avere colleghe belle: se sono poco carine non le considerano affatto. Questa è la verità! Lì si tratta della natura dell’uomo e non si può fare molto altro. Per fortuna siamo diversi. È importante conquistarsi il rispetto dei colleghi maschi perché, se ti vedono lì solo a fare la stronzetta, a mostrare la gonna e le scarpe, non ti considerano. Se invece capiscono che stai lì per lavorare e sei un po’ maschiaccio come loro, vestita solo con la tenuta da lavoro, ti rispettano molto di più.

Crede che le donne siano in grado di dare qualcosa in più o di diverso rispetto agli uomini in questo campo?

Una donna, se viene riconosciuta come una seria professionista, parlando sempre del calcio, può, con educazione ed eleganza, porre qualsiasi tipo di domanda. Questo lo posso dire per esperienza. Mi è capitato di intervistare tantissimi allenatori che, dopo le partite, erano isterici e nervosi. Intervistati dai colleghi maschi, rispondevano male perché magari questi facevano la domanda ponendosi in un modo sbagliato, facendo leva sulla tattica e sulla tecnica. Quando arrivavano da me erano sempre più arrabbiati; io gli ponevo lo stesso quesito e rispondevano con calma e tranquillità. La donna, sapendo gestire la situazione con educazione e rispetto, e con il sorriso che non deve mancare mai, riesce a scardinare determinate situazioni, ma per fare questo, naturalmente, bisogna essere sempre persone competenti. Ti racconto un episodio particolare: quando Conte ha fatto l’ultima conferenza stampa come ct della Nazionale italiana, dopo essere entrato in sala, stava in silenzio, ma si vedeva che aveva voglia di piangere. Mentre tutti gli uomini si domandavano perché non parlasse, io mi sono alzata in piedi e l’ho applaudito perché una persona così si applaude. È un uomo che ha dato tutta la sua energia a una squadra composta da giocatori non di grande levatura calcistica. L’episodio è stato riportato sulla «Gazzetta dello Sport» e la cosa mi ha fatto molto piacere: questo è anche il rispetto che ti mostrano i colleghi.

Quando si occupava delle interviste dei posticipi di serie A per Controcampo, in quanto donna, ha mai sentito la pressione di dover fare la domanda “giusta” per non essere mal giudicata da un mondo, quello del calcio, prevalentemente composto da uomini?

No. Io sapevo perfettamente che dovevo fare una domanda che non era carina e allora prima partivo con un quesito un po’ più tranquillo. Prima di tutto osservavo con molta attenzione come gli allenatori si comportavano con i colleghi maschi. Quando era il mio turno, erano già super nervosi e arrabbiati allora io prima partivo con una domanda molto serena e tranquilla, dopo ne facevo un’altra e, infine, ponevo quella cattiva. In ventiquattro anni che sono a Mediaset mai un allenatore mi ha risposto male, mi ha insultata o trattata male. Io reputo questa una cosa molto positiva. Nell’ambiente finisce che ti conoscono: allenatori e giocatori sanno se li tratti bene, se sei corretta, se sei str…a, se vuoi per forza cercare la polemica. Io non l’ho mai cercata. Mi sono sempre attenuta ai fatti. Se il giocatore e l’allenatore non volevano rispondere per me non era un problema. Ognuno è libero di fare quello che crede: domandare è lecito, rispondere è cortesia. Io non me la sono mai presa e mai nessuno mi ha risposto in modo cattivo.

Durante tutta la sua carriera in che modo e quanto è cambiato il giornalismo sportivo? E cosa pensa del giornalismo televisivo odierno?

Il nostro lavoro è cambiato tantissimo. Io purtroppo non amo tutti questi telegiornali, questo continuo dare le notizie. Sono partiti i colleghi di Sky con questa formula e adesso ci siamo anche noi. Credo che in questo modo lo sport perda molto della sua grande attesa e dell’amore. Non si può sviscerare ogni minuto qualcosa perché il calcio si gioca sul campo: sono undici contro undici in quei novanta minuti e basta. Tutto il resto, come dico sempre io, è fuffa. Io opterei per tornare indietro: pochi telegiornali curati, con notizie ricercate e giornalisti che scovano le notizie. Quello di oggi non è più giornalismo perché ogni cosa diventa buona per essere inserita nel telegiornale, ma non è così. Questo cambiamento ha rovinato un po’ tutto. Prima eravamo abituati alla carta stampata che adesso, invece, è diventata un problema perché le notizie si sanno prima e il giorno successivo sono già vecchie e sviscerate. I colleghi che scrivono devono cercare di approfondire una notizia che i telegiornali hanno già trasmesso mille volte. Io ho iniziato con un altro tipo di giornalismo e quello attuale non mi piace molto. Preferisco il giornalismo che si vive sul campo, direttamente, e che fa trasferire al telespettatore quello che si sta vivendo personalmente.

 

CAPITOLO 5

RADIOCRONACA E TELECRONACA AL FEMMINILE

Come già ricordato nel primo capitolo, la radiocronaca e la telecronaca hanno rappresentato un’importante innovazione all’interno del giornalismo sportivo: l’hanno reso, con il passare degli anni, fruibile e comprensibile per molti più italiani contribuendo ad alimentare l’amore per lo sport e per il calcio.

La trasmissione che ha segnato la vera grande evoluzione, a livello radiofonico, è stata «Tutto il calcio minuto per minuto». All’inizio si trattava solo di collegamenti multipli che cominciavano a partire dal secondo tempo. Dalla stagione 1987-1988, invece, le cose cambiano: le radiocronache partono già dal fischio di inizio. Questa è una stagione innovativa, non solo per le mutate modalità della cronaca, ma anche per l’arrivo tra i radiocronisti di una donna, Nicoletta Grifoni. È una grande novità in quegli anni, qualcosa di inaspettato che, stando alle parole della diretta interessata, il mondo del calcio ha saputo recepire molto meglio della società del tempo. Dopo di lei solo Gabriella Fortuna[62] e, dal 2012, Sara Meini che esordisce prima come seconda voce di una partita di serie A per poi arrivare alla diretta di una partita in solitaria.

Per quanto riguarda la telecronaca, la prima giornalista ad abbattere questa barriera è stata Lia Capizzi.[63] A lei, per sostituire un collega malato, fu affidato il compito di raccontare l’incontro Messina-Brescia, il 9 gennaio 2005. Giulia Mizzoni,[64] invece, è stata la prima donna italiana a debuttare in una partita di Champions League. Si scontravano RC Genk e Bayer Leverkusen ed era il dicembre 2011. Oggi, sempre per Sky Sport, la voce è quella di Gaia Brunelli, che non solo segue tutte le partite del Parma Calcio, ma anche incontri di Europa League e serie B.

In questo capitolo si cercherà di capire, attraverso l’esperienza diretta delle interessate, cosa significhi per una donna raccontare una partita di calcio, come siano il mondo della radiocronaca e quello della telecronaca e, soprattutto, come una donna si approccia a questo lavoro, quali difficoltà incontra e le eventuali discriminazioni di cui è vittima.

Si parte dalle origini, con un’intervista alla prima donna a essere entrata nel mondo radiofonico come cronista (Nicoletta Grifoni), per arrivare a Sara Meini, colei che attualmente segue le partite di serie A per «Tutto il calcio minuto per minuto» in modo da avere una panoramica del mondo attuale. È cambiato qualcosa rispetto a quel lontano 1988? Quali sono le prospettive per le donne in questo settore? Quali qualità è necessario possedere per svolgere al meglio il lavoro? A queste domande risponde anche Gaia Brunelli, attualmente l’unica telecronista italiana a svolgere con continuità l’attività. Lei ci presenta il mondo della televisione, la sua esperienza con il Parma e le sue considerazioni sul presente e sul futuro.

1.     NICOLETTA GRIFONI: LA PRIMA VOCE FEMMINILE DI «TUTTO IL CALCIO MINUTO PER MINUTO»

Nicoletta Grifoni è “un’istituzione del giornalismo radiofonico”, così come è stata definita al Festival del Giornalismo di Perugia nel 2015. Arriva in Rai nel gennaio 1988 e la sua prima volta come cronista di una partita di calcio è stata il 29 maggio dello stesso anno. Si trattava dell’incontro tra Centese e Ancona, partita di serie C.

Prima di allora aveva lavorato per una radio privata dove le avevano già assegnato un ruolo abbastanza importante nel mondo dello sport. Il capo della redazione sportiva della Rai la nota e la settimana successiva la invita a effettuare una prova per la cronaca di una partita di basket per il programma Tuttobasket.  È la prima a cimentarsi in una simile avventura.

Il passo verso il mondo del calcio è breve: Mario Giobbe[65] telefona al capo della Grifoni per chiedere se la ragazza è disponibile a debuttare in «Tutto il calcio minuto per minuto». Nicoletta sceglie di provarci e questo cambierà per sempre la sua vita.

Nel 1990 conduce dagli studi di Roma la trasmissione dedicata ai Mondiali di calcio e nel 1991 dà vita alla prima trasmissione radiofonica sulla pallavolo, andata in onda fino al 2013. Per il GR Sport per quasi quindici anni ha seguito come inviata numerose edizioni dei Campionati Europei, Campionati Mondiali, World League di volley, venendo poi chiamata a far parte delle spedizioni italiane Rai alle Olimpiadi di Barcellona, Atlanta e Sidney.

A suo dire non è la radiocronaca di calcio quella più difficile da fare, bensì quella di una partita di pallavolo: la palla corre così veloce, il terreno di azione è così limitato che cercare di raccontare azioni e movimenti in campo diventa davvero arduo. La velocità quasi non consente di elaborare un pensiero. C’è un’altra barriera che deve essere ancora infranta ed è il suo sogno: una radiocronaca di una partita di pugilato fatta da una donna.

Nicoletta è attualmente caposervizio responsabile della redazione sportiva di Rai Marche e durante la nostra chiacchierata rievoca le speranze, le soddisfazioni, i sacrifici di una donna diventata un punto di riferimento nel settore, nonché esempio per molte altre colleghe. La sua voce, la sua più grande forza in questo lavoro, è dolce e rassicurante, ma anche in grado di emozionare, soprattutto quando ricorda sensazioni vissute e avvenimenti importanti ai quali ha partecipato.

Ha affermato di aver preferito la radio perché lì contava solo la voce. Crede che in questo mondo la bellezza possa essere un elemento discriminatorio che metta in discussione la professionalità?

È un discorso piuttosto complesso. Io ho detto che a livello radiofonico conta solo la voce, è vero. La radio ha come caratteristica il fatto che chi ti ascolta non viene condizionato né attratto o distratto, durante il suo ascolto, da altri fattori quali l’aspetto fisico, il vestito, l’atteggiamento. Ho sempre considerato questo un elemento di grande verità che rende quello che viene fuori dalla radio meno filtrato rispetto a quello che si ascolta dalla tv. Infatti, una ragazza può essere molto bella in video, ma non è detto che sia competente. Può sopperire certe mancanze con altre qualità che possono essere l’atteggiamento e l’aspetto fisico. Alla radio tutto questo non esiste quindi la competenza, la capacità di linguaggio e di parola vengono fuori in maniera più veritiera. Detto questo penso anche che la bellezza nel giornalismo televisivo conti: è chiaro che essere piacevoli alla vista può essere un elemento in più e può rappresentare un ostacolo in meno nel cammino.

Come è stato e come ha vissuto il suo ingresso nella redazione di «Tutto il calcio minuto per minuto»? Si è sentita mai “mal vista” dagli uomini allora e negli anni successivi della sua carriera?

Ci sono entrata casualmente. È stato tutto un po’ fortuito e io ero anche un po’ inconsapevole. Ero una ragazza che proveniva da una radio privata, in cui c’erano uomini e donne, ragazzi e ragazze che lavoravano insieme. Sono sempre stata disinteressata a fare differenze di genere così mi sono inserita nella redazione nello stesso modo in cui si sarebbe inserito un ragazzo. Ho avuto rispetto nei confronti dei capi perché esisteva una gerarchia professionale, basata sull’esperienza: c’erano dei mostri sacri dai quali potevo solo imparare. Per il resto non mi sono mai sentita particolarmente osteggiata all’interno di quella redazione. Forse qualche gelosia c’era, ma io non ci ho mai fatto caso. Portavo avanti il lavoro con dedizione e perseguivo la mia strada. Per me l’ingresso non è stato traumatico, anzi tutto è avvenuto normalmente.

Cosa ha significato per lei fare le radiocronache? Quali sono le difficoltà del mestiere?

Per me ha significato fare il lavoro che ho amato di più nella vita. Non sapevo di essere tagliata per farlo e l’ho scoperto con il tempo. Scopri la capacità di saper raccontare un incontro, di saperlo far vivere a chi non ha occhi in quel momento per guardarlo, solo praticando il mestiere. Nel momento in cui questa cosa succede è davvero una magia. I quindici anni in cui facevo le radiocronache, nonché l’inviata, sono stati gli anni più belli della mia vita. Io ero felice e vivevo pienamente ogni avvenimento sportivo come se stessi giocando anche io. Ero all’interno di una favola e in fondo era questo il motivo per cui tante persone mi dicevano che quello che raccontavo piaceva; probabilmente perché traspariva la mia passione. Lavorare in radio ha rappresentato tanto. Non parlo dal punto di vista della carriera, del ritorno di immagine o economico, ma dal lato personale: mi ha dato delle emozioni e una felicità immensa. Ogni volta che finivo una radiocronaca ero distrutta perché mi immedesimavo nell’incontro, ma ero soddisfatta.

Secondo lei è più semplice l’accesso in televisione o in radio? Perché?

Fino a oggi c’è stato un maggiore uso del mezzo televisivo. Per le conduttrici di programmi sportivi è stato sicuramente più semplice entrare in questo mondo: rivolgendosi a un pubblico maschile, se sono delle persone piacevoli alla vista, competenti quel tanto che basta per saper condurre una trasmissione, possono farcela. Da questo punto di vista è meno complicato perché c’è anche un grande supporto: quando si conduce un programma televisivo ci sono gli autori e c’è, normalmente, qualcuno che ti indirizza; nella radiocronaca, invece, non si bara e, se racconti un avvenimento, lo fai in diretta, senza altri supporti. La radiocronaca e la telecronaca, infatti, secondo me, sono una delle cose più rischiose che si possano fare. Le donne con il tempo ci sono arrivate. Io nel 1988. Ha rappresentato un avvenimento che ha sconvolto gli abitudinari perché si è capito che c’era una donna sufficientemente competente in materia calcistica tanto da poter raccontare la partita nel momento in cui si svolgeva, con tempi che non consentivano di riflettere più di tanto, a differenza della tv. In radio il pensiero e la parola sono coincidenti.

Crede che la nuova frontiera per le donne possa essere la telecronaca?

La telecronaca è qualcosa di molto rischioso. Le donne si sono avvicinate in un secondo momento al calcio, un po’ per educazione, perché da piccole non ci permettevano di giocare, un po’ perché ci abbiamo impiegato più tempo a capire una partita. Con il passare degli anni tutto cambierà perché le ragazze oggi seguono il calcio e lo capiscono. Piano piano arriveranno donne brave, competenti che saranno nelle condizioni di poterlo raccontare e ce ne saranno sempre di più. Una volta che si è dimostrato che una ragazza non ha niente meno di un uomo nel racconto sportivo è fatta. È solo una questione di tempo di cui hanno bisogno le nuove croniste sportive per entrare.

Per fare la radiocronaca e la telecronaca ci vuole più coraggio o passione?

Entrambi. Ci vuole il coraggio, ma ci vuole anche tanta passione perché quello che fai ti deve piacere. Devi amare lo sport di cui parli e devi avere voglia di raccontarlo.  Solo così prende vita quella magia di cui ho parlato prima.

Come si racconta il calcio agli uomini per radio? Quali sono le vie che lei ha seguito?

Non mi sono mai posta grossi problemi. Ho raccontato il calcio così come mi veniva naturale farlo. Penso che sia molto importante essere rigorosi: conoscere molto bene quello di cui si parla e quello che è accaduto prima dell’avvenimento sportivo, essere preparati e informati sulla partita. È fondamentale essere indipendenti e avere un pensiero autonomo. Io non amo i tecnicismi assoluti, le perifrasi, i modi di dire che ti fanno andare avanti nel racconto; ci sono frasi fatte nel calcio su cui molti cronisti si adagiano. Io apprezzo più chi esce dal seminato, chi usa una sua terminologia. Mi auguro che nelle nuove generazioni di radiocronisti e telecronisti, maschi o femmine che siano, ci sia sempre più spazio per personalità ben definite, ma allo stesso tempo uniche.

È un’opinione diffusa e una sensazione percepita che una radiocronista/telecronista donna non abbia la stessa credibilità di un uomo. Come reagisce a questa affermazione?

Nella mia esperienza questo non è accaduto. Anzi, il mondo del calcio era molto più pronto del mondo esterno, almeno per come l’ho vissuta io, a recepire e ad accettare una radiocronista. In tutte le partite e gli avvenimenti sportivi in cui, dopo aver fatto la radiocronaca, mi sono presentata negli spogliatoi per intervistare allenatori e giocatori, mi hanno sempre rispettata. Durante i Mondiali del Novanta in Italia ero spesso al ritiro della Nazionale. Di donne ce n’erano davvero poche, ma nessuno si è mai permesso di avere atteggiamenti discriminatori. C’era magari qualche collega della carta stampata che mi trattava con sufficienza, ma non uomini del calcio. Credo dipenda anche dal modo di porsi; io l’ho sempre fatto in maniera molto rispettosa e rigorosamente professionale in un mondo maschile in cui sapevo di dovermi far rispettare.

Quali sono i pregi e quali i difetti di questo mestiere?

È un lavoro appassionante, che ti porta a vivere anche dei momenti “storici” che hanno un grande seguito e ti segnano per sempre; conosci tanta gente e viaggi quindi i pregi sono tantissimi. Fare la giornalista o radiocronista è pesante dal punto di vista fisico, ma l’unico vero difetto è che questo è un lavoro totalizzante: non ti lascia molto spazio per il resto della vita. Ti dà tanto, ma il prezzo da pagare è alto. Se ti vuoi affermare e vuoi seguire ogni cosa devi spendere molto tempo. Anche quando non sei in radiocronaca, devi essere sempre aggiornata, pronta a lasciare tutto e partire. Devi sempre seguire le notizie e prepararti e per questo resta poco spazio per la vita privata.

Da prima donna radiocronista in radio come crede sia cambiato il giornalismo sportivo negli anni?

Il giornalismo sportivo è cambiato tanto e, se parliamo del calcio, basta pensare che ci sono partite tutti i giorni. Richiede maggiore disponibilità e i tempi della vita sono stravolti. Il mondo del giornalismo ha seguito i cambiamenti dello sport. Dal punto di vista televisivo c’è stata una vera e propria rivoluzione; l’avvento di nuove tecnologie e le innumerevoli inquadrature che si hanno ora di uno stesso episodio hanno richiesto una particolare capacità al cronista: il racconto deve essere in simbiosi con l’occhio della telecamera. La carta stampata, poi, è completamente stravolta perché arriva il giorno dopo, quando tutto è stato già visto, rivisto e analizzato. Per la radio non è cambiato molto. Si è solo dovuta adeguare a una velocità e a un modo di giocare diverso rispetto a quello di vent’anni fa. Ora sono necessarie velocità e precisione di linguaggio. Adesso un radiocronista ha anche il monitor quindi bisogna dire che l’evoluzione da un lato toglie, ma dall’altro dà. Bisogna, quindi, solo adeguarsi ai cambiamenti.

 

2.   SARA MEINI: LA NUOVA VOCE DI «TUTTO IL CALCIO MINUTO PER MINUTO»

Fiorentina doc, è appassionata di calcio fin da bambina tanto da dedicarsi a questo sport come giocatrice per dieci anni, fino ai venti. Nel suo cassetto, però, c’è anche il sogno di diventare una giornalista.

Ascolta da sempre le radiocronache di «Tutto il calcio minuto per minuto» e, dopo anni di gavetta, dapprima seguendo i settori giovanili di alcune società toscane, poi della Fiorentina, la squadra della sua città, inizia a collaborare con «calciomercato.com» e una radio locale, «Lady Radio».

Arriva alla Rai nel 2007. Prima collabora con le redazioni del Molise e della Sardegna, poi si trasferisce a Roma, dove lavora per il Giornale Radio e Rai Sport.  Torna, infine, nella sua regione dove attualmente, per la redazione Rai regionale, conduce il Tgr Toscana.

Nel 2012 esordisce nella trasmissione «Tutto il calcio minuto per minuto» come seconda voce per la partita Fiorentina-Juventus. Il 2 aprile 2015, invece, per volontà di Riccardo Cucchi, caporedattore della trasmissione, le viene affidata la partita Livorno-Lanciano di serie B. Questa volta è sola in un mondo fatto quasi solo di uomini ad ascoltarla.

Quali sono stati i suoi primi passi nel mondo del giornalismo? Come è arrivata alla radio?

Ho cominciato lavorando per «Calciopiù», un giornale che si occupava solo di settori giovanili. Ogni sabato e ogni domenica seguivo una società a Firenze, fin da quando avevo quindici anni. Da lì sono passata al settore giovanile della Fiorentina finché non è arrivata un’altra opportunità, quella di «calciomercato.com». Successivamente ho iniziato a lavorare per una radio privata, «Lady Radio». Infine, ho collaborato con diverse testate giornalistiche fin quando non sono arrivata alla Rai.

È difficile per una donna affermarsi come radiocronista?

Sempre. Quando gli uomini sentono la voce di una donna sembra scontato che questa ci capisca sempre meno di un uomo. Un po’ di diffidenza c’è sempre da parte di tutti, ma se una non si sente in inferiorità non vedo perché dovrebbe essere difficile.

Quali sono i pregi e quali i difetti del mestiere?

I pregi sono tantissimi perché quando hai questa passione fin da piccola ti resta; fare il lavoro che ti piace, che hai sempre sognato è la cosa più bella che ti possa capitare. Per quanto riguarda i difetti basta sapere che io ho una bambina di tre anni e quando lei è libera, cioè il sabato e la domenica, io devo lavorare. Il fine settimana non esiste.

Molti uomini, soprattutto tifosi, faticano a dare credibilità alla radiocronaca e alla telecronaca fatte da una donna. Le è mai capitato di sentirsi discriminata e come reagisce a questa affermazione?

A me non è mai successo di sentirmi discriminata. Le persone che frequento in radio sono bravissime e non mi sono mai sentita mal vista. Pian piano sto crescendo; sono arrivata da poco nella redazione di «Tutto il calcio minuto per minuto» per cui sto tranquillamente al mio posto. Faccio quello che mi viene detto senza alcun problema.

Come si approccia una donna a una radiocronaca? Quali vie segue per raccontare una partita di calcio a un pubblico prevalentemente maschile?

Ho giocato per dieci anni a calcio femminile quindi per me il calcio non è un mondo maschile. Io seguo la passione che ho avuto fin da piccola e cerco di trasferirla nella radiocronaca. Non ho la presunzione di pensare di capirci più di tutti e, poiché ho sempre amato il calcio, il mio è un approccio simile a quello che potrebbe avere qualsiasi uomo. Non è una cosa diversa.

Nelle sue telecronache segue gli esempi degli illustri predecessori e dei colleghi maschi contemporanei o traccia una strada tutta sua inventando un proprio stile?

Vorrei ispirarmi agli illustri predecessori, ma è chiaro che, per forza di cose, ognuno ha un suo stile. Le donne in questo campo sono state pochissime per cui è difficile che possa fare riferimento a qualcun’altra. Ho un mio modo di raccontare le partite, ma diciamo che non creo niente per distinguermi. Cerco di essere il più naturale possibile e non ho un termine o una frase ai quali provo ad “agganciarmi” per essere diversa. Preferisco, piuttosto, essere il più semplice possibile anche perché so di essere attaccabile da tutti i punti di vista e proprio per questo faccio in modo che la gente mi noti il meno possibile.

Secondo lei per una ragazza che sogna di raccontare una partita di calcio è più facile intraprendere la strada radiofonica? È un canale più semplice rispetto a quello della telecronaca?

Io lavoro per la Rai, ma appartengo al Tgr Toscana per cui sono anche in televisione. Ci sono delle differenze, ma non perché una cosa sia più facile e l’altra più difficile. È un modo di porsi completamente diverso. Nella radio conta la voce, ma sono importanti tante altre cose, come l’accento ad esempio. La televisione è costituita anche da molta apparenza. Se chiedi a una come me, che da sempre è una sportiva, cosa preferisce allora ti rispondo che per me è molto più facile essere in radio, ma questo non vuol dire che sia più difficile approcciarsi al mondo della televisione.

Qual è la situazione attuale per le donne riguardo la radiocronaca? Quali sono, secondo lei, le prospettive in questo mondo e in quello della telecronaca?

Siamo ancora poche e c’è molta diffidenza nei nostri confronti da parte dell’ascoltatore, ma anche da parte dei nostri capi.  Un po’ bisogna cambiare la mentalità dei nostri dirigenti, un po’ quella di chi ci ascolta. La cosa importante, che secondo me tutti devono sapere, è che le donne che fanno telecronache e radiocronache, e io le conosco quasi tutte, sono davvero preparate quando arrivano al momento dell’incontro. Probabilmente rendono meno degli uomini, ma sicuramente hanno una preparazione altissima.  A volte mi rendo conto di preparare delle cose che non mi servono e, nonostante questo, la volta successiva lo faccio nuovamente. I miei colleghi si adoperano meno, ma paradossalmente vanno in onda e rendono più; dipende dall’esperienza e questa li fa risultare molto più sicuri e convincenti.

 

3. GAIA BRUNELLI E LA TELECRONACA

Gaia Brunelli nasce a Milano il 18 agosto 1979. Dopo aver conseguito la laurea in Comunicazione presso l’Università IULM di Milano, si specializza come doppiatrice e segue alcuni corsi di dizione poiché le piace molto lavorare con la voce. Gioca a calcio per tanti anni, in serie A: la sua passione è sempre stata lo sport, in tutte le sue forme, ma il calcio resta sempre il grande amore.

Oggi può essere considerata l’unica telecronista donna italiana: per la stagione 2015-2016 ha curato tutte le telecronache del Parma, retrocesso in serie D dopo i problemi finanziari, ma per lei ci sono anche le telecronache delle partite di serie B, di Europa League oltre che degli incontri di tennis.

La scelta di intervistare una donna come Gaia nasce dalla volontà di focalizzare l’attenzione su una nuova tendenza, quella della telecronaca al femminile, che fatica ad affermarsi, ma che ha dato qualche spiraglio di luce a tutte quelle giovani ragazze che sognano di potersi affermare come telecroniste. Spodestare gli uomini dal loro ruolo è una missione ardua se non impossibile: la diffidenza dei tifosi è massima e si fatica a credere che una donna possa avere una corretta visione di gioco o la capacità di poter raccontare i passaggi, i goal, gli assist di una partita. Gaia ci prova e lo fa con convinzione, spinta dalla passione e dall’amore verso questo sport.

È un sabato mattina di agosto, il campionato è già iniziato da una settimana e lei, rispondendo alle mie domande, racconta di una carriera iniziata per caso e di un lavoro che ritiene bellissimo e affascinante.

Come è iniziata la sua carriera da giornalista?

Raccontare come mi sono avvicinata al giornalismo fa molto ridere. Ho salvato un cane per strada e la sua padrona, per ringraziarmi, mi ha offerto un caffè. Parlando mi ha chiesto cosa facessi e, poiché lei lavorava per Alice On Tv, mi ha proposto di mandare un curriculum perché cercavano nuovi collaboratori. Ho iniziato così. La carriera ha preso il via in maniera fortuita, ma la passione c’è sempre stata. Considera che ho giocato tanto, che sono sempre andata allo stadio a seguire le partite, quindi il mio destino era già segnato.

È difficile per una donna affermarsi come telecronista?

Non è difficile, è impossibile! Io non sono affermata. Sono l’unica in Italia in questo momento, se non si considera Giulia Mizzoni che faceva le telecronache per Fox Sports fino a poco tempo fa. Non basta essere brave, non basta avere ritmo, non bastano le cose che sono sufficienti per un uomo. Devi prepararti almeno tre volte tanto rispetto a quanto fa un collega dell’altro sesso e non sbagliare mai. Questo vuol dire che un uomo può sbagliare. Se lo fa una donna automaticamente si pensa: «Ecco! Questa non sa un ca… di calcio!» quindi devi essere super concentrata e forse non basta nemmeno quello. Faccio anche telecronache di serie B, ho fatto telecronache di Europa League e di Champions League, per tutta la scorsa stagione ho seguito il Parma. Quest’anno ho raccontato due amichevoli del Bologna ed è stata la prima volta che io, a Sky, in quattro anni ho avuto la possibilità di seguire una squadra di serie A, tra l’altro solo in amichevole. Non faccio la serie A perché è un prodotto molto importante per le emittenti e fomenta gli animi dei tifosi. Non assegnare questo compito a una donna, che magari dice qualcosa fuori posto, è una forma di tutela nei miei confronti, per “riservarmi” dagli insulti dei tifosi, ma sicuramente è una protezione nei confronti dell’azienda che non ha voglia di ricevere lamentele perché ha una figura femminile che fa la telecronaca. Sono affermata da un certo punto di vista, ma sulle cose un po’ minori verso le quali c’è meno accanimento. Il mio è un mestiere prettamente maschile e siamo nel 2016. Tuttora è considerato tale ed è questa la difficoltà.

Telecronista per caso o per scelta?

Fin da piccolina, essendo figlia unica, facevo da sola le telecronache di me stessa mentre giocavo in cameretta con la palla, quindi sicuramente la mia è stata una scelta. Ho fatto dizione e doppiaggio: l’uso della voce per me è una cosa molto importante. Ma tutto è stato anche un po’ casuale perché ho iniziato senza crederci più di tanto, ma una volta intrapresa la strada mi sono detta che era una cosa che potevo fare. Non pensavo di trovare tanti ostacoli. Ad Alice avevo più scelta, più possibilità di muovermi senza che nessuno badasse a me. Lì ho fatto tanta gavetta perché, facendo serie A e serie B, mi occupavo di tutto e ho imparato tanto. Adesso, lavorando a Sky, è molto più difficile.

Quali sono i pregi e quali i difetti del mestiere?

Bisogna fare delle distinzioni. Da telecronista donna i pregi sono che sei l’unica e che ovviamente se vali, se conosci il gioco del calcio, il regolamento, c’è gente che ti valorizza e vieni maggiormente considerata rispetto alla classica donna nel mondo del pallone che solitamente è quella che sta ferma, è bella, ma non sa cosa dire. Altro pregio è che si viaggia tanto, vai sui campi, conosci gente, fai pubbliche relazioni, incontri persone e atmosfere diverse. Per chi è appassionato questo è un mestiere bellissimo e gratificante. A me piace molto viaggiare, scoprire e credo che fare tutto questo abbinandolo al calcio sia la cosa più bella del mondo. I difetti sono che sei l’unica e quindi non hai concorrenza. Avere concorrenza nel mercato è sempre positivo. Ricevo tante email ma non c’è mai nessuna donna che mi scrive: «Vorrei fare quello che fai tu!». Io vorrei tanto, invece, che questa cosa potesse funzionare perché più concorrenza crea, ovviamente, più possibilità. Poi si vive in una giungla: prendi gomitate ovunque e calci negli stinchi perché ognuno difende il proprio e fai fatica ad avere degli spazi soprattutto se arrivi all’ultimo. È una guerra quotidiana ma è un mondo bello e affascinante.

È un’opinione diffusa e una sensazione percepita che una telecronista donna non ha la stessa credibilità di un uomo. Come reagisce a questa affermazione?

Ormai non so cosa mi scalfisca di più. Ne ho sentite talmente tante! Purtroppo è così per una serie di motivi. Ad esempio, dopo l’affermazione di Mihajlovic: «Le donne non possono parlare di calcio», mi hanno richiesto un’intervista. Quando volevano sapere cosa pensassi di questa affermazione, decisi di rispondere così: «Nel mio caso vi assicuro che è meglio che io stia a parlare di calcio, piuttosto che in cucina dove so fare solo una pasta in bianco». Risposta scherzosa, ironica, diplomatica. In realtà io la penso come Mihajlovic perché vedere tutte queste veline che non sanno niente parlare di calcio mi sembra assurdo. Riesco a essere maschilista anche io. Le donne, anche a Sky, hanno una visione completamente differente da quella che può avere un uomo. L’uomo va al bar e parla di tattica, conosce chi sta in panchina all’Inter, al Milan, alla Juve. La donna non sa queste cose; non sa cosa sia il 4-3-3. Devi aver giocato per avere questa visione di gioco oppure da bambino non devi aver fatto altro se non guardare partite, cioè quello che fa la maggior parte degli uomini. Io sono d’accordo con questa affermazione: la donna non può avere la stessa credibilità di un uomo; poche donne possono averla o al massimo possono costruirla negli anni, con la fatica e con il sudore.

Nelle sue telecronache segue gli esempi degli illustri predecessori e dei colleghi maschi contemporanei o traccia una strada tutta sua inventando un suo stile?

Purtroppo è difficile, dopo aver ascoltato tante telecronache, non trovare qualcuno che magari rappresenti un esempio da trasportare nel tuo lavoro. Mi è stato insegnato a Sky di cercare di esulare da tutte le altre telecronache e di creare un mio modo di raccontare la partita. Mi è stato consigliato anche di creare un mio modo dire, qualcosa che sia sempre la stessa. Io chiudo sempre ogni telecronaca con «È tutto qui». Non lo dico solo al termine delle partite del Parma, ma alla fine di ogni incontro: uso questa espressione per la serie B, l’Europa League. Decido come continuare la frase in base alla cosa che ha segnato più la partita, quella che deve essere messa in rilievo. Enfatizzo ciò che è stato importante in quell’evento e cerco ovviamente di dare qualcosa di mio sempre.

Quali sono, secondo lei, le prospettive nel mondo della telecronaca per le donne?

Una risposta non ce l’ho. È una domanda che vorrei fare io al mondo. Se ci fossero più ragazze giovani che avessero voglia di intraprendere questo mestiere anche affidandosi a degli uomini, io sarei felice. Questa sarebbe la svolta. Io non sono giovanissima. Ho trentasette anni ed è ovvio che se avessi iniziato a vent’anni sarebbe stato meglio. Questa è una domanda troppo difficile.

Sente l’«eccezionalità» del suo ruolo? Si sente una cosiddetta mosca bianca?

Da un lato è bello e appagante perché le persone che conosci, i colleghi stessi, ti riconoscono come una brava e ti differenzi da quelle donne che non hanno questa abilità o comunque fanno un altro mestiere: sono brave perché sono show girl, sono in grado di stare davanti a una telecamera e intrattenere la gente, altre sono giornaliste in gamba, ma come inviate, non come telecroniste. Da un lato è gratificante, ma dall’altro sono dispiaciuta di essere l’unica perché non solo aiuterebbe me, ma sarebbe bello che in Italia fossimo più aperti come in Germania, dove numerose sono le donne che fanno le telecronache. Vorrei tanto non essere l’unica, ma la telecronaca al femminile è una novità e resterà tale: la società non è pronta per un cambiamento del genere.

CONCLUSIONI

Dal primo «Bollettino Trimestrale del Club Alpino di Torino», nato nel 1865, alla pay tv odierna intercorrono quasi centocinquant’anni: parliamo di un’evoluzione che non riguarda solo il passaggio dalla carta stampata a internet, e ciò che tutto questo concerne, ma lo stesso modo di vivere e recepire lo sport.

All’inizio era un affare per pochi, di élite: lo sport era praticato da pochi individui e i bollettini loro dedicati erano appannaggio solo di gente del settore in grado, tra l’altro, di leggere e scrivere. La situazione negli anni è mutata e il Fascismo ha contribuito molto nella diffusione delle attività sportive, seppur perseguisse altri scopi dal momento che ragazzi e uomini allenati erano una grande risorsa per l’esercito. Resta comunque un dato certo, l’analfabetismo: rendeva difficoltoso l’approccio allo sport e non permetteva a molti di comprendere nemmeno la cronaca di evento.

Come dicevamo, bollettini e riviste erano fruibili solo per pochi individui; nemmeno l’introduzione dei nuovi mezzi di comunicazione come la radio e la tv ha semplificato le cose. Il linguaggio era troppo tecnico, i termini specifici e desueti per un pubblico italiano non istruito. Ci sono voluti anni perché le cose cambiassero e ad alcune trasmissioni spetta il merito di aver fatto avvicinare sempre più gli italiani al calcio permettendogli di seguire la squadra del cuore con costanza.

Trasmissioni come «La Domenica Sportiva» e «Tutto il calcio minuto per minuto» sono un’istituzione nel giornalismo sportivo: hanno rappresentato una forma di aggregazione oltre che di informazione. Come testimoniano anche i libri di storia della lingua italiana, la radio e la tv hanno facilitato la scoperta di nuovi termini da parte del pubblico accrescendo, così, la conoscenza della lingua. Facendo riferimento a queste due trasmissioni, inoltre, si possono analizzare due dei temi affrontati nelle pagine precedenti: la questione dei diritti televisivi e la cronaca di un evento.

Nei primi anni i programmi dedicati al calcio erano davvero pochi, ma l’avvento delle emittenti private ha determinato alcuni cambiamenti. Trasmissioni come «La Domenica Sportiva», «90° minuto», «Quelli che il calcio» hanno sempre dovuto adeguarsi, adattarsi e reinventarsi per sopperire all’assenza di immagini la cui esclusiva spettava ad altri. Proprio il fatto che oggi le inquadrature sono sempre più numerose ha fatto sì che mutasse anche il modo di raccontare un evento sportivo. L’idea di Carosio di far vivere all’ascoltatore le emozioni e le fasi salienti del match è quasi superata. Adesso in una telecronaca c’è sovrabbondanza di immagini, di replay e anche il cronista ha dovuto adeguare il suo lavoro: il pubblico è più esigente, ha pretese diverse e crede di conoscere molto di più dello stesso professionista. Non ci si può limitare al racconto, ma è necessario un commento. Così negli anni, a partire dalla carta stampata, si è scelto di non riportare più solo la successione degli eventi, ma di inserire un’analisi dell’incontro. La scelta ha riguardato anche il mondo della televisione: i commentatori tecnici, oggi, non solo spalleggiano il telecronista, ma presenziano tutti gli studi televisivi; ex allenatori, calciatori ed arbitri sono sempre pronti a dire la loro in ogni post partita, interpellati dai vari conduttori.

Tornando al surplus di immagini, se è vero, però, che l’evoluzione toglie qualcosa al giornalismo dei primi tempi, è anche vero, come sostiene Nicoletta Grifoni, che regala qualcosa di prezioso come, ad esempio, i monitor, molto utili ai radiocronisti: così il margine di errore diminuisce e aumenta la precisione nel racconto.

Crescono negli anni anche le quantità di denaro che emittenti come Sky e Mediaset sono disposte a investire. Più materiale corrisponde a un aumento delle trasmissioni dedicate al calcio. Non si tratta solo di tg sportivi riproposti a tutte le ore del giorno. I palinsesti sono sempre più vari, ma per offrire qualcosa di nuovo al telespettatore è necessario avviare una sfida che oggi sembra combattuta attraverso la scelta della ragazza più bella da mettere in video. Maggiore è la bellezza, maggiore sarà l’interesse suscitato nei telespettatori, per la maggior parte uomini.

Ma come si è arrivati a tutto questo? È stato semplice per le donne “conquistare” la conduzione di programmi sportivi? Le costanti ricerche di Milly Buonanno testimoniano come il passaggio dal settore dello spettacolo e della moda, l’unico concesso al gentil sesso, a quello della politica, della cronaca e dello sport è stato complicato. Ci sono voluti i movimenti di emancipazione degli anni Settanta prima che alcune porte si aprissero (e solo per la carta stampata).

Solo a partire dagli anni Ottanta le donne hanno cominciato a lavorare anche in tv come giornaliste dedicandosi prevalentemente alla cronaca e alla politica per poi affacciarsi pian piano nel mondo dello sport. A una donna, Paola Ferrari, è stata affidata per la prima volta la conduzione di una trasmissione fino ad allora condotta solo da uomini: da quel momento la strada è stata sempre meno ostica e difficoltosa, nonostante la tradizione volesse le ragazze lontane dai campi di calcio.

 

Invece, è solo questione di amore e di passione. Il giornalismo sportivo è una scelta, lo è in tutti i casi presi in considerazione. Può essersi presentata l’occasione giusta al momento giusto, ma la verità è che nessuna si è innamorata di questo mestiere all’improvviso. Tutte lo amavano fin da bambine, tanto da scegliere di non seguire corsi di danza o le bambole, ma una palla. C’è chi ha giocato a calcio per tanti anni, chi ha preferito la pallavolo. Ognuna è arrivata a militare in campionati professionistici e ha fatto della sua passione anche il proprio mestiere.

Rosanna Marani sognava fin dai suoi primi anni di età di scrivere per il quotidiano sportivo più importante d’Italia: la tenacia di una donna che ha saputo battersi e ha avuto il coraggio di inseguire Rivera in ogni dove pur di ottenere l’intervista che sapeva le avrebbe cambiato la vita. La determinazione, la stessa di Simona Rolandi che non ha mai smesso di rinunciare al suo sogno, nemmeno davanti alla certezza di contratti a tempo determinato dopo una laurea in Economia e Commercio. Quando hai un fuoco dentro, che arde e non smette mai di bruciare dentro di te, a ventiquattro anni, hai solo il dovere di alimentarlo: la scelta di provare a entrare nella scuola di giornalismo di Perugia, una svolta, e di lì la Rai, oggi la sua “casa”. Sempre una scuola di giornalismo, la «Walter Tobagi», ha segnato la vita di Beatrice Ghezzi: dai giornali locali, agli stage a Mediaset, a una vita come dipendente di una delle emittenti più importanti; la strada non è stata semplice, ma la passione per il giornalismo e lo sport sono state alla base del raggiungimento del sogno. Un po’ per caso, invece, hanno avuto inizio le carriere della Vanali e della Brunelli: un incontro ha indirizzato il loro percorso e indicato la via per obiettivi più grandi. La tv privata è alla base della loro gavetta, così come accade a Mikaela Calcagno: l’esperienza nelle piccole emittenti è stato il giusto mezzo per imparare i trucchi del mestiere. Nel destino di Nicoletta Grifoni e Sara Meini, invece, quasi sempre una radio privata, che ha permesso l’ingresso nella più storica trasmissione radiofonica dedicata al calcio.

Ma quanti cambiamenti ci sono stati da quel primo articolo pubblicato da Rosanna Marani nel lontano 1973 fino ai giorni nostri? Allora si è trattato di una sfida: un’intervista a un giocatore in silenzio stampa da sei mesi in cambio di un posto di lavoro. Oggi tutto questo sarebbe stato possibile? La Marani sarebbe riuscita ugualmente nel suo intento? Negli anni Settanta era una questione di rapporti personali: le giuste amicizie, i giusti contatti le hanno permesso di raggiungere Rivera in un hotel ad Ancona e di avvicinarlo con una scusa. La verità ha fatto tutto il resto. Nessuna ragazza in tempi odierni potrebbe riuscire in un’impresa simile; non per mancanza di caparbietà, volontà o capacità, ma semplicemente per l’esistenza di regole diverse e procedure da rispettare. È questo uno degli aspetti lamentati da molte delle intervistate: l’assenza, oggi, di rapporti personali; tutto deve essere mediato dalla società, dall’ufficio stampa e ottenere un’intervista diventa davvero un’impresa. Non basta che un giocatore, un allenatore ti conoscano, proprio come accadeva in passato. Come sostiene Monica Vanali, nell’ambiente finisce che le giornaliste sono conosciute: ognuno sa con chi si rapporta e come sarà trattato, ma non è l’individuo a scegliere chi lo intervisterà, bensì la società.

È anche una questione di diritti. Con l’avvento della pay per view ogni immagine ha un prezzo, si tratta di esclusive e naturalmente “vince” chi è disposto a pagare di più. In questo modo il giornalismo perde del suo romanticismo, come hanno dichiarato Monica Vanali e Beatrice Ghezzi che sono arrivate a Mediaset quasi venticinque anni fa. Ogni notizia è sviscerata e trasmessa mille volte in tv, tanto da essere “bombardati” dai telegiornali sportivi. Lo sport perde della sua attesa e del suo amore e diventa quasi esclusivamente un affare mediatico sul quale speculare: infiniti programmi che per suscitare interesse necessitano di una novità; per questo motivo spesse volte vengono scelte ragazze molto belle affinché rendano più attraente e accattivante la trasmissione, facendola spiccare nel variegato e nutrito palinsesto televisivo, dato l’elevato numero di telespettatori maschili che costituiscono lo “zoccolo duro” del pubblico.

A questo proposito entra in gioco uno dei tanti temi affrontati nelle pagine precedenti: bellezza sinonimo di competenza oppure no? Le intervistate sostengono che dipende tutto dal comportamento. Le diffidenze esistono davvero, ma possono essere sconfitte. Esistevano ai tempi di Rosanna Marani per ovvie ragioni: nessuno avrebbe mai immaginato, nella società di allora, che una donna potesse occuparsi di calcio. In quegli anni tante discriminazioni e pregiudizi, soprattutto negli spogliatoi, erano frutto del “buon costume” e provenivano non solo da parte del pubblico maschile, bensì da parte dei colleghi giornalisti. È quello che accade un po’ ancora oggi. Alcuni tabù sono crollati, ma all’interno delle redazioni, e non solo, a volte certi pensieri sussistono. Nonostante oggi siano professioniste affermate, le intervistate hanno vissuto questo genere di situazioni sia perché vent’anni fa erano davvero poche in questo settore sia perché anche i colleghi dimostrano di guardarle con occhi diversi perché donne. Solo l’impegno e la professionalità permette di far mutare il loro pensiero.

No abiti succinti, no atteggiamenti che possano essere fraintesi, ma una tenuta sportiva e una movenza un po’ da “maschiaccio”, come la definisce la Vanali, almeno quando ci si sposta come inviate: questo sembra essere il giusto antidoto. Bisogna dimostrare agli uomini di essere al loro pari e di avere la medesima competenza e voglia di lavorare. Solo questo permette di acquistare credibilità ai loro occhi, a quelli degli intervistati e dei telespettatori. Un discorso diverso deve essere fatto, invece, per la conduzione dei programmi televisivi: essere delle belle donne aiuta e in video bisogna sempre presentarsi curate: ciò non preclude la competenza, basta solo che ci siano amore e passione nei confronti della professione.

Anche durante la conduzione di un tg, nei soli cinque minuti in cui la giornalista parla, deve dimostrare di sapere, di conoscere, di padroneggiare gli argomenti che sta presentando. Non è possibile, o non è necessaria, una conoscenza totale di tutti gli sport, sebbene in un tg sportivo se ne parli, ma bisogna far capire al telespettatore di sapere. Stare in uno studio e gestire degli ospiti, poi, è un onore e il fatto di stare a stretto contatto con gli uomini, stando alle dichiarazioni delle intervistate, non crea soggezione. Mikaela Calcagno è sempre se stessa e cerca di eseguire al meglio il lavoro, anche a costo di fare domande scomode che possono comportare risposte poco educate da parte degli allenatori. È forse questa una forma di discriminazione? La stessa domanda, posta da un uomo, riceverebbe la medesima risposta? Probabilmente in alcuni casi influisce il fattore “tempo”. Per esclusive gli allenatori sono ascoltati a caldo, appena terminata la partita. La rabbia è ancora accesa e le risposte, in alcuni casi, sono piccate. Di fronte a un commentatore tecnico, un ex allenatore, l’atteggiamento degli intervistati è diverso: ma questo, si sa, è il gioco delle parti, come lo definisce la “regina” di Mediaset Premium. In ogni caso un atteggiamento tale non rappresenta un problema per nessuna perché ognuna svolge il proprio lavoro al meglio, avendo cura di rispettare anche, e soprattutto, i telespettatori.

“Domandare è lecito e rispondere è cortesia”: la frase di Monica Vanali racchiude al meglio quanto appena scritto. Il famoso detto può essere considerato il “mantra” di ogni inviata. Dato per certo il fatto che chi intervista debba porsi nei confronti dell’intervistato in maniera educata e rispettosa, nessuno deve rimanerci male se qualcuno decide di non rispondere. Mai avere paura di fare una domanda scomoda, tutto sta nel capire quando e come porla. Questo è l’insegnamento di Monica Vanali che, nei suoi lunghi anni di carriera, ha intervistato allenatori e giocatori in qualsiasi post partita: mai una risposta sgradevole, mai una mancanza di rispetto. Anche l’esperienza di Nicoletta Grifoni lo conferma: pur lavorando in radio mai le è capitato di essere trattata male da atleti o allenatori. Tutti l’hanno sempre rispettata, perché le donne meritano rispetto, soprattutto quando si pongono nei giusti modi e con professionalità.

Tutto questo si realizza solo grazie ad una meticolosa preparazione: non è possibile pensare di presentarsi in video o sul campo senza aver studiato ed essere a conoscenza di ogni dato relativo all’incontro di cui si sta parlando e non solo. Lle intervistate raccontano di uno studio attento, di tantissime partite visionate, a partire dai campionati minori per arrivare alla Liga spagnola, alla Premier League, alla Bundesliga.  Ogni giorno è necessario leggere la rassegna stampa e quando ci si muove per una cronaca è importante conoscere la corretta pronuncia dei cognomi dei giocatori, la loro disposizione in campo, i dati relativi alle sconfitte, alle vittorie, agli incontri precedenti tra le due squadre. Non è concesso sbagliare perché gli errori per le donne pesano un po’ di più. Invece, sembra quasi che per gli uomini sia lecito, o per lo meno a loro è concesso. L’errore della donna, al contrario, spesso è frutto di incompetenza, di un’infanzia passata a giocare con le bambole piuttosto che con un pallone per strada. Soprattutto le croniste sostengono di prepararsi e di studiare in media molto più dei colleghi maschi. Nel mondo della radiocronaca e della telecronaca la diffidenza sembra essere maggiore e il margine di errore consentito ancor più inferiore, proprio per la convinzione da parte dei tifosi che ci siano delle mancanze di base da parte delle donne a livello tecnico-tattico. Questa è opinione condivisa e diffusa e costituisce una delle differenze uomo-donna più marcate.

È riconosciuto da parte di quasi tutte le intervistate, infatti, che le donne nel giornalismo diano qualcosa di diverso rispetto agli uomini; non perché siano più brave o più competenti, ma semplicemente perché guardano il campo con altri occhi. Agli uomini spetta il merito di avere una marcia in più dal punto di vista tecnico-tattico: si accorgono immediatamente di uno spostamento, di un cambio di modulo; è quello che emerge dai loro racconti, seppur tre di loro abbiano giocato e abbiano una visione meno maschilista di questo mondo. C’è chi sostiene che il calcio sia un affare di uomini e chi, invece, essendo stata parte attiva, pensa che non sia così. L’unico dato certo è che tutte se ne occupano con grande professionalità e competenza e con una sensibilità, come dicevamo, che agli uomini manca. La donna osserva ogni cosa con gli occhi di una mamma, non ha paura di emozionarsi e di commuoversi e questo suo istinto protettivo e materno molte volte le consente di ottenere da parte degli intervistati risposte che a un uomo non sarebbero mai date.

L’episodio raccontato da Monica Vanali, relativo all’ultima conferenza stampa di Antonio Conte come ct della nazionale, è esplicativo a riguardo: unica donna in mezzo a un folto gruppo di uomini, si alza in piedi e applaude un allenatore che non riesce a proferire parola mentre i suoi colleghi giornalisti si guardano attoniti domandandosi il perché del suo silenzio. Le donne hanno un cuore un po’ più grande e agli uomini spetta il compito di dover riconoscere la sensibilità delle colleghe: «La Gazzetta dello Sport» il giorno seguente riporta l’accaduto nell’articolo relativo alla conferenza stampa. È il frutto della stima che, con il duro lavoro, la costanza e l’impegno, ognuna riesce a conquistarsi.

Di evoluzioni, dunque, ce ne sono state. L’unica barriera rimasta in piedi, almeno fino a poco tempo fa, era quella della telecronaca. Con la radiocronaca ci era già riuscita Nicoletta Grifoni, rimasta a lungo, però, un’eccezione. Oggi Sara Meini è stata scelta da Riccardo Cucchi come nuova radiocronista di «Tutto il calcio minuto per minuto». A lei è affidata anche la serie A. La Grifoni sostiene che il mondo del calcio, allora, fosse più pronto della stessa società del tempo ad accogliere la novità. Sara Meini e Gaia Brunelli, a cui oggi Sky ha affidato con continuità le telecronache del Parma e di altri incontri di calcio, non la pensano così: credono che la società non sia in grado di recepire e assimilare questo cambiamento e non sono le uniche a farlo. Le appoggiano Monica Vanali, Simona Rolandi, Beatrice Ghezzi e Mikaela Calcagno secondo cui esiste ancora la convinzione che alcuni lavori siano prettamente maschili. Nelle loro considerazioni subentra anche il gusto personale: c’è tanta stima per le colleghe che si cimentano in questo settore, ma alcune di loro preferiscono essere tradizionaliste e lasciare agli uomini il compito di raccontare l’incontro/scontro tra ventidue giocatori. Solo Rosanna Marani e Nicoletta Grifoni, oltre le dirette interessate, rispondono con entusiasmo e si dicono felici di questo nuovo ruolo affidato alle figure femminili.

Come approcciarsi a questo lavoro? Seguire gli esempi degli illustri predecessori o tracciare uno stile tutto nuovo? I grandi cronisti sono uomini, non ci sono donne da prendere come modello e le emittenti vogliono, o per lo meno suggeriscono, di creare un modo proprio di raccontare la partita e di avere qualcosa che contraddistingua. Questo è ciò che a Sky hanno consigliato a Gaia Brunelli. Il suo «è tutto qui» la rende unica e appartiene soltanto a lei. Parere contrastante è quello di Sara Meini: lei volutamente non cerca qualcosa che la differenzi, per restare sempre al suo posto ed esporsi il meno possibile. Data la rischiosità del ruolo e del compito, più volte denunciata anche da Nicoletta Grifoni, è preferibile evitare situazioni che rendano ancor più facili le critiche.

Un altro aspetto interessante che emerge nelle interviste, soprattutto in quelle delle due dirette interessate, riguarda il ruolo delle emittenti: secondo loro, nonostante la Rai e Sky concedano la possibilità di raccontare le varie partite di calcio, la dirigenza è ugualmente diffidente o, forse, ancora poca convinta e determinata nella scelta di avere, soprattutto a livello televisivo, più donne come croniste. La serie A è un palcoscenico molto importante e i telespettatori sono prevalentemente uomini. Se la società non è davvero pronta per questo cambiamento, come quasi tutte sostengono, come può esserlo un’emittente? Probabilmente ci sarebbero molte lamentele da parte degli abbonati e questa è solo una delle due possibili interpretazioni. Non è forse una forma di tutela nei confronti delle giornaliste stesse verso le quali i tifosi sarebbero poco clementi? Non vi è sicuramente una risposta né certa né univoca per queste domande: le sfaccettature e le interpretazioni potrebbero essere infinite. Resta la certezza che a piccoli passi le donne si stiano muovendo anche in questo settore: la porta è aperta e con determinazione si potranno sconfiggere tutti i pregiudizi relativi alla telecronaca. Nonostante la tradizione sia un masso troppo pesante da spostare come sostiene la Marani, ci saranno sempre più donne competenti e coraggiose, disposte a sfidare i vecchi credo e ad affermarsi in questo modo ed è quello che si augura Gaia Brunelli che vorrebbe non essere più una “mosca bianca”. Oltre a ricevere numerosi complimenti, anche da parte di donne, desidererebbe avere più colleghe con cui confrontarsi perché una sana rivalità permetterebbe un’ulteriore crescita.

Le prospettive per le donne nel mondo del giornalismo sportivo, e nel mondo del calcio soprattutto, saranno sempre più rosee, a partire dal desiderio di Rosanna Marani di vedere alla direzione della «Gazzetta dello Sport» una donna. Si riusciranno a superare sempre più le difficoltà tipiche di questo mestiere che, per tutte, è in grado di regalare ed emozionare tanto. Gli uomini, a quel punto, avranno il dovere, e forse anche il piacere, di ricredersi.

Il giornalismo sportivo è una professione, ma anche una risorsa: si ha la possibilità di viaggiare, di conoscere nuova gente, di essere sempre a contatto con atleti e professionisti, si ha il piacere e l’onore di raccontare eventi sportivi che fanno la storia. «Fare il lavoro che si è sempre sognato di fare è la soddisfazione più grande»: è questa la frase che ho sentito ripetere da ognuna e ogni volta è stata un’emozione.

Viene riconosciuto un unico difetto: la mancanza di tempo da dedicare a se stesse e alla propria famiglia. Il lavoro assorbe completamente ogni altra energia: non esistono più giorni liberi ed è difficile conciliare gli impegni lavorativi con la famiglia. Quasi tutte le donne intervistate, infatti, non sono mamme e le uniche a esserlo (Beatrice Ghezzi e Sara Meini) lamentano proprio il dispiacere di avere poco tempo da trascorrere con le proprie bambine. La prima ha scelto di “modificare” il suo lavoro: ha rinunciato a trasferte per dedicarsi alla redazione, l’altra ha iniziato da pochi anni la sua avventura in radio come cronista e il sabato e la domenica, anziché essere con sua figlia, è sui campi di calcio. È una questione di scelte secondo Monica Vanali, mentre Simona Rolandi confida di non voler rinunciare al sogno di diventare mamma. La più determinata resta sempre la pioniera Rosanna Marani, la quale sostiene di aver risposto sempre in malo modo a quei giornalisti che le chiedevano come facesse a conciliare il suo ruolo di mamma e il suo lavoro da giornalista. Serve organizzazione e, naturalmente, è necessario fare delle distinzioni: il giornalismo sportivo ha mille sfaccettature e il ruolo dell’inviata è sicuramente diverso da quello di redattrice.

La situazione è, in ogni caso, più rosea rispetto all’inizio. Ci sono più figure femminili nel giornalismo sportivo e sempre più ce ne saranno. Donne competenti, coraggiose e piene di amore verso l’informazione e il calcio. È un lavoro che dà tutto, ma allo stesso tempo toglie qualcosa sul lato personale. Sono necessari tenacia, professionalità e il coraggio di inseguire i propri sogni per arrivare lì dove si è sempre desiderato essere: su un campo di calcio, a raccontare di goal, partite, giocatori e allenatori. L’insegnamento che emerge dalle loro parole è il seguente: mai arrendersi, studiare, prepararsi per non commettere errori e diventare così inattaccabili.

RINGRAZIAMENTI

Se è stato possibile realizzare questo lavoro è solo grazie alla disponibilità dimostratami da donne, giornaliste e professioniste quali Gaia Brunelli, Mikaela Calcagno, Beatrice Ghezzi, Nicoletta Grifoni, Rosanna Marani, Sara Meini, Simona Rolandi e Monica Vanali. A loro va il mio più sentito ringraziamento per avermi concesso l’onore di intervistarle e per avermi fatta emozionare ogni volta che ascoltavo le loro storie.

Grazie ad Andrea per aver seguito questo lavoro in ogni sua singola evoluzione. Grazie per avermi supportata e sopportata. Senza i tuoi preziosi consigli, il tuo incoraggiamento e il tuo appoggio non so se avrei raggiunto l’obiettivo.

Grazie alla mia famiglia; senza il suo sostegno non avrei potuto inseguire un sogno e vivere tutte quelle esperienze che in quest’anno e mezzo mi hanno regalato gioie e soddisfazioni.

 

BIBLIOGRAFIA

 

  1. AUGÉ, Football. Il calcio come fenomeno religioso, Bologna, Centro Editoriale Dehoniano, 2016.
  2. BISCARDI, Storia del giornalismo sportivo. Da bruno Roghi a Gianni Brera, Siracusa, Morrone Editore, 2015.
  3. BUONANNO, Visibilità senza potere. Le sorti progressive ma non magnifiche delle donne giornaliste italiane, Napoli, Liguori Editori, 2005.
  4. BUONANNO, Introduzione in I problemi dell’informazione, anno XL, n. 3, 2015, pp. 433-439.
  5. BUONANNO, Al fronte, ma non sulla front page. Giornaliste in prima pagina in I problemi dell’informazione, anno XL, n. 3, 2015, pp. 483-499.
  6. DE LUCA, P. FRISOLI, Sport in tv. Storia e storie dalle origini a oggi, Roma, Rai Eri, 2010.
  7. MARANI, Una donna in campo, Lecco, Agielle, 1975.
  8. MARANI, La testa nel pallone. I presidenti di società raccontano se stessi: le ambizioni, le speranze, le debolezze, i segreti dei padroni del calcio, Milano, SM, 1978.
  9. MAIETTI, Il calcio linguaggio di Gianni brera, Lodi, Lodigraf S.P.A., 1986.
  10. ORMEZZANO, La stampa sportiva in La stampa italiana nell’età della tv. Dagli anni Settanta a oggi, a cura di V. Castronovo e N. Tranfaglia, Bari, Editori Laterza, 2008.
  11. PISANO, Donne del giornalismo italiano. Da Eleonora Fonseca Pimentel a Ilaria Alpi. Dizionario storico bio-bibliografico. Secoli XVIII-XX, Milano, Franco Angeli, 2004.
  12. SERAFINI, Di calcio non si parla, Milano, Bompiani/RCS Libri S.p.A, 2014.

 

SITOGRAFIA

 

http://www.festivaldelgiornalismo.com/speaker/giorgio-matteoli-2

http://www.giornalismo.unimi.it/

http://www.festivaldelgiornalismo.com/

https://www.youtube.com/watch?v=BAvMH6sNsh4

https://it.wikipedia.org/wiki/Milly_Buonanno, aggiornamento 6 giugno 2016.

http://www.magzine.it/category/newslab/

http://audipress.it/news/

http://www.quellicheilcalcio.rai.it/dl/portali/site/page/Page-5c417e6a-0f15-4190-b83b-65c487b33a3f.html

https://it.wikipedia.org/wiki/Renato_Casalbore, aggiornamento 22 marzo 2016.

https://it.wikipedia.org/wiki/Gianni_Brera, aggiornamento 27 luglio 2016.

https://it.wikipedia.org/wiki/Bruno_Roghi, aggiornamento 2 giugno 2016.

https://it.wikipedia.org/wiki/Antonio_Ghirelli, aggiornamento 23 maggio 2016.

http://www.la7.it/futbol/video/11-metri-sandro-piccinini-27-07-2016-190607

https://it.wikipedia.org/wiki/Enzo_Tortora, aggiornamento 7 settembre 2016.

https://it.wikipedia.org/wiki/Carlo_Nesti,  aggiornamento 10 settembre 2016.

https://it.wikipedia.org/wiki/Tiki_Taka_-_Il_calcio_%C3%A8_il_nostro_gioco, aggiornamento 11 settembre 2016.

https://it.wikipedia.org/wiki/La_Domenica_Sportiva, aggiornamento 11 settembre2016.

https://it.wikipedia.org/wiki/Simona_Rolandi,  aggiornamento 18 giugno 2016.

https://twitter.com/annatrieste/status/769305688136974340

https://lortodirosanna.wordpress.com/author/rosannamarani/

http://www.tuttosport.com/news/gossip/prova-tv/2015/04/18-908883/monica_vanali_conte_un_numero_uno_come_ibra/

http://tuttoilcalcioblog.blogspot.it/2012/03/intervista-eslusiva-sara-meini.html

http://iltirreno.gelocal.it/empoli/cronaca/2016/04/29/news/una-voce-rosa-nel-pallone-sara-meini-debutta-in-serie-a-in-empoli-bologna-1.13385710

http://www.lanazione.it/firenze/sport/calcio/sara-meini-tutto-calcio-rai-1.818873

http://www.telegiornaliste.com/capizzi.htm

http://www.alfemminile.com/interviste/giulia-mizzoni-intervista-d57200.html

https://it.wikipedia.org/wiki/Lia_Capizzi, aggiornamento 11 luglio 2016.

http://www.festivaldelgiornalismo.com/speaker/nicoletta-grifoni

https://it.wikipedia.org/wiki/Mario_Giobbe, aggiornamento 17 aprile 2016.

https://it.wikipedia.org/wiki/Beatrice_Ghezzi, aggiornamento 9 novembre 2015.

https://it.wikipedia.org/wiki/Simona_Rolandi, aggiornamento 18 giugno 2016.

https://it.wikipedia.org/wiki/Mikaela_Calcagno, aggiornamento 20 settembre 2016.

http://www.telegiornaliste.com/ghezzi.htm

http://www.tvzoom.it/2014/02/13/17392/giulia-mizzoni-foxsports-calcio-mondiale/

https://it.wikipedia.org/wiki/Monica_Vanali, aggiornamento 12 novembre 2015.

https://it.wikipedia.org/wiki/La_Gazzetta_dello_Sport, aggiornamento 30 agosto 2016.

https://it.wikipedia.org/wiki/Pierluigi_Pardo, aggiornamento 6 settembre 2016.

https://it.wikipedia.org/wiki/Sandro_Piccinini, aggiornamento 1 giugno 2016.

https://it.wikipedia.org/wiki/Marino_Bartoletti, aggiornamento 8 luglio 2016.

http://www.radio24.ilsole24ore.com/conduttori/pierluigi-pardo

https://it.wikipedia.org/wiki/Mino_Taveri, aggiornamento 22 settembre 2016.

https://it.wikipedia.org/wiki/Paolo_Bargiggia, aggiornamento 19 agosto 2016.

INTERVISTE

 

Brunelli Gaia, intervista del 27 agosto 2016.

Calcagno Mikaela, intervista dell’8 settembre 2016.

Grifoni Nicoletta, intervista del 14 settembre 2016.

Marani Rosanna, intervista del 14 settembre 2016.

Meini Sara, intervista del 21 settembre 2016.

Rolandi Simona, intervista del 20 settembre 2016.

Vanali Monica, intervista 16 settembre 2016.

 

 

 

 

[1] Nasce a Larino, in provincia di Campobasso, il 26 novembre del 1930. Laureato in giurisprudenza, ha fatto pratica di giornalismo sportivo collaborando dal 1952 al quotidiano napoletano «Il Mattino» e dal 1956 al «Paese Sera», di cui è diventato caporedattore. Nel 1979 inizia a lavorare per la televisione come responsabile dei programmi sportivi della terza rete e nel 1980 inventa «Il processo del Lunedì», la trasmissione che l’ha reso celebre.

[2] A. Biscardi, Storia del giornalismo sportivo. Da Bruno Roghi a Gianni Brera, p. 30

 

[3] Nato a Torino il 17 settembre 1935, è un giornalista sportivo, oltre che scrittore e commentatore televisivo. Tra i suoi incarichi più importanti si possono ricordare il suo ruolo di direttore di «Tuttosport» e di editorialista della «Stampa».

[4] G. Ormezzano, La stampa sportiva, p. 391.

[5] «Il Ciclista» è un settimanale illustrato ideato da Eliseo Rivera nel 1895 ed edito da Sonzogno. È una risposta del quotidiano «Il Secolo» alla rivista «Il ciclo», un settimanale sportivo nato da un’idea di Anton Giulio Bianchi, redattore del «Corriere della Sera», che voleva strappare lettori al «Secolo», allora il quotidiano più letto a Milano

[6] È un settimanale dedicato al ciclismo, fondato a Torino nel 1895 da Eugenio Camillo Costamagna e stampato su carta verde.

[7] Vanno ad aggiungersi al giro di Lombardia organizzato nel 1906, alla Milano-Sanremo indetta nel 1907 e «Giro d’Italia» avviato nel 1909.

[8] Nei dati Audipress 2016/I «La Gazzetta dello Sport» registra un numero di lettori pari a 3248 e si piazza prima del «Corriere della Sera» (2137) e della «Repubblica» (2083). Vedi: http://audipress.it/news/.

[9] A. Biscardi, Storia del giornalismo sportivo. Da Bruno Roghi a Gianni Brera, p. 55.

[10] Nonostante si parli di democratizzazione dello sport non bisogna dimenticare che quella di Mussolini fu, dal punto di vista politico, soprattutto una manovra di controllo sulle masse: la preparazione fisica da un lato rientrava nel programma di miglioramento della razza, dall’altro faceva sì che si affermassero degli atleti che sarebbero andati a costituire dei modelli di comportamento per l’intera nazione. Essi rappresentavano gloria, potenza ed eroismo, tutti valori alla base dell’ideologia fascista.

[11] G. Ormezzano, La stampa sportiva, p. 394.

[12] Gian Paolo Ormezzano, nel suo saggio La stampa sportiva, individua tre fasi nella storia del giornalismo sportivo italiano: amore, erotismo e pornografia. Nella prima “era” si può parlare di una vera e propria storia d’amore tra la stampa e lo sport: i giornali e i giornalisti sono gli stessi autori delle organizzazioni sportive; anche se i cantori non sono degli scrittori eccelsi bisogna riconoscere loro una scrittura appassionata e la capacità di costruire eroi, finti ma credibili. Per quanto riguarda la fase dell’erotismo, invece, che trova in Brera il suo maggiore esponente, si passa «allo studiare, al raffinare, a legittimare, magari anche letterariamente l’amore». Lo sport in questi anni è oggetto di uno studio e di un’attenzione maniacali. Negli anni Settanta-Ottanta, infine, si passa all’ultima fase, quella della pornografia che, come scrive Ormezzano, significa pratica sollecitata, guidata, informata al voyeurismo “sano”; la tv ha contribuito molto allo sviluppo di quest’ultimo mostrando aspetti particolari, risvolti speciali e immagini insolite di prestazioni che continuavano ad essere eseguite, almeno apparentemente, come prima.

[13] A. Biscardi, Storia del giornalismo sportivo. Da Bruno Roghi a Gianni Brera, p. 69.

[14] Nasce a Salerno il primo gennaio 1981 e si trasferisce a Torino nel 1912. Prima di fondare «Tuttosport» ha lavorato alla «Gazzetta del Popolo» per circa trent’anni. Nel 1945 fonda il noto quotidiano sportivo torinese, ma nel 1949 perde la vita nella tragedia di Superga che colpisce il grande Torino.

[15] Viene fondato a Bologna nel 1924 da un gruppo di appassionati sportivi. All’inizio ha cadenza trisettimanale (lunedì, mercoledì, sabato) e si trasforma in quotidiano nel 1928 successivamente alla scelta di mutare nome. Dopo essere stato rilevato nel 1927 dalla federazione bolognese del Partito Nazionale Fascista assume il nome di «Il Littorale» che mantiene fino al 1943, anno in cui torna al nome originario.

[16] A. Biscardi, Storia del giornalismo sportivo. Da Bruno Roghi a Gianni Brera, pp. 134-135.

[17] Guardare nota n. 10.

[18] Nato a Napoli il 22 maggio 1910 è uno dei più noti giornalisti italiani, dedito dapprima alla politica poi anche allo sport. In quest’ultimo campo ha diretto «Tuttosport» (1959-1960) e il «Corriere dello Sport» (1965-1972). È deceduto a Roma nell’aprile 2012.

[19] Nasce a Roma il 17 febbraio 1950 ed è oggi uno dei più autorevoli giornalisti sportivi italiani. Inizia a scrivere per la «Gazzetta dello Sport» e poi per il «Giornale d’Italia» dove resta fino al 1976, anno in cui Sergio Zavoli, allora direttore della Rai, lo vuole alla Redazione Sportiva del Gr1 Rai. Nel 1978 dà vita a «Tuttobasket» e ne diviene conduttore: si tratta di una trasmissione radiofonica completamente dedicata al basket andata in onda fino al 2013. Nel 1987 passa alla conduzione di «Tutto il calcio minuto per minuto», dove resta fino al 1992, anno in cui passa alle reti Fininvest.  Per Mediaset ha condotto programmi come «Domenica Stadio», l’«Appello del martedì» e «Pressing Champions League». Nel 2006 torna alla Rai come direttore di Rai Sport; conduce la «Domenica Sportiva» fino al maggio 2010, mentre, dopo aver ideato la trasmissione radiofonica Circo Massimo (in onda su Rai Radio 2), dal 2011 cura l’omonimo blog sul «Corriere della Sera».

[20] M. De Luca, Carosio nascita di una leggenda in Sport in tv. Storia e storie dalle origini a oggi, p. 18.

[21] Ente Italiano per le Audizioni Radiofoniche, società al tempo titolare delle concessioni delle trasmissioni radiofoniche.

[22] È un giornalista, conduttore e telecronista. Nasce a Roma il 4 marzo 1974. Dopo una laurea in Economia e dopo una breve esperienza come Marketing Assistant Brand Manager, si dedica completamente al giornalismo. Prima è inviato e telecronista per Stream, poi telecronista delle principali partite della Serie A, Champions League e Europa League per Sky e adesso per Mediaset. Ha seguito come inviato e telecronista i Mondiali 2006, 2010 e 2014 e gli Europei 2004, 2008 e 2012. È stato per sei anni voce ufficiale di Pes (Pro Evolution Soccer) e dal 2015 lo è di Fifa. Ha scritto le autobiografie di Antonio Cassano e Samuel Eto’o. Attualmente conduce anche «Tiki Taka», programma in onda su Italia 1, e Tutti Convocati, su Radio 24.

[23] È un giornalista, conduttore e telecronista. Nasce a Roma il 17 aprile 1958. Dopo esperienze nelle varie emittenti locali, dal 1984 inizia a collaborare con Rete 4; passa in seguito alla Fininvest, divenuta poi Mediaset, dove lavora attualmente.

[24] http://www.la7.it/futbol/video/11-metri-sandro-piccinini-27-07-2016-190607.

[25] La data storica di inaugurazione del servizio televisivo italiano è fissata per il 3 gennaio 1954, ma le trasmissioni andavano in onda già da diversi anni, dall’era Mussolini. È durante il suo governo, esattamente il 22 luglio 1939 che vengono inaugurati i programmi televisivi sperimentali dell’Eiar con due ore di trasmissioni, visibili solo a Roma. Il 16 settembre dello stesso anno i programmi iniziano a essere trasmessi anche da Milano. Tutto viene interrotto il 31 maggio 1940 perché le frequenze possono interferire con le emissioni dell’impianto telefunken di atterraggio. Le trasmissioni riprendono l’11 settembre 1949 sia da Milano che da Torino, quindi già prima che il servizio televisivo italiano venga inaugurato.

[26] Nasce a Genova il 30 novembre 1928. A ventitré anni entra in Rai e si afferma come conduttore prima in radio e poi in televisione. Conduce «Primo applauso», «Telematch» e «Campanile Sera» prima di arrivare alla conduzione della «Domenica Sportiva». Dopo il licenziamento da parte della Rai, inizia a lavorare per emittenti private. Nel 1977 torna in Rai e assume la conduzione di «Portobello». Successivamente, nel 1983, viene ingiustamente arrestato per traffico di stupefacenti: l’accusa si rivela successivamente infondata. Muore nel 1988 a Milano.

[27] In questi anni la Rai trasmette ancora in bianco e nero.

[28] Inizia la sua carriera come giornalista sportivo collaborando con il «Guerin Sportivo», il «Corriere d’Informazione» e «Tuttosport». Negli anni Ottanta entra in Rai e qui resta fino al 2010. Insieme a Nicolò Carosio può essere considerato l’unico radio-telecronista italiano ad aver commentato due mondiali vinti dall’Italia.

[29] Giornalista e conduttore televisivo italiano. Nasce a Forlì il 30 gennaio 1949. Laureato in Giurisprudenza, inizia collaborando con il «Resto del Carlino». La sua carriera come giornalista sportivo in televisione è strettamente legata alla Rai per cui ha creato o condotto vari format legati al calcio tra cui «La Domenica Sportiva» e «Quelli che il calcio». È spesso ospite nelle varie trasmissioni Rai come commentatore.

[30] Nasce a Brindisi il 21 settembre 1961. Esordisce su Radio Canale 94 e poi si sposta a Puglia Tv. Nel 1987 viene assunto a Telelombardia e qui diviene responsabile della redazione sportiva. Successivamente lavora per Tele+ e quindi per Sky Sport. Nel 2005 approda a Mediaset dove è ancora oggi.

[31] Nasce a Pavia il 3 novembre 1962. Dopo aver conseguito la laurea in Scienze Politiche, prima collabora con il quotidiano «La Provincia Pavese» poi con «Il Corriere dello Sport» occupandosi prevalentemente di calciomercato. Nel 1994 arriva a Mediaset dove attualmente ancora lavora.

[32] Nel frattempo la Rai ha perso nuovamente i diritti sulla serie A.

[33] Questo il testo del tweet: «Se qualcuno ha visto Cavani scriva qua sotto con hashtag #hovistoCavani Prima però fatevi l’alcol test e l’esame optometrico mi raccomando». L’hashtag #hovistoCavani diviene virale e diversi tweet, alcuni molto simpatici, sono divenuti oggetto di molti servizi televisivi.

[34] M. Augé, «Football. Il calcio come fenomeno religioso», pp. 15-16.

[35] Nasce a Firenze nel 1929. Esordisce nel giornalismo a soli diciassette anni scrivendo per un quotidiano fiorentino. Lavora prima come reporter per il «Mattino dell’Italia Centrale», poi passa ad «Epoca» e successivamente all’«Europeo». Importanti sono le sue interviste ai divi di Hollywood, ma anche quelle fatte a numerosi capi di stato e leader politici di tutto il mondo. È inviata in Vietnam durante tutto il periodo della guerra, segue la guerra indopakistana e tutte le questioni dell’America Latina. Nel 1991 è inviata del «Corriere della Sera» per cui segue la guerra del golfo. Inoltre, ha pubblicato diversi romanzi tra cui Niente e così sia, Lettera a un bambino mai nato, La rabbia e l’orgoglio. È morta il 15 settembre 2006.

[36] Nasce a Milano nel 1921. Dopo aver conseguito la laurea in Lettere capisce che l’insegnamento non è la sua strada e, così, nel 1943 pubblica il suo primo articolo dal titolo La moda nera che le costa sette anni di carcere (anche se ne sconta solo due). Nel 1945 torna a scrivere dapprima per il «Corriere della Sera», poi per «L’Europeo» e infine per «L’Espresso», che lascia nel 1971, per passare a «Panorama». Muore nel novembre 1997.

[37] Nasce a Roma nel 1946 ed esordisce nel giornalismo nel 1972, collaborando con «Globo». Dopo la sua chiusura inizia a lavorare per l’«L’Espresso». Nel 1975 diviene corrispondente e inviata degli esteri di «Repubblica». Negli anni Ottanta passa al «Corriere della Sera». Attualmente è una deputata del Parlamento Europeo.

[38] Nasce a Sarno in provincia di Salerno nel 1950. Si laurea in Filosofia presso l’Università di Napoli nel 1972 e già nel 1977 scrive per «Il Manifesto». Nel 1980 arriva a New York come free lance per «Repubblica». Successivamente segue la guerra del Golfo. Da agosto 1996 a maggio 1998 è direttore del Tg3. Conduce la trasmissione radiofonica «Radio Tre Mondo» mentre collabora con il «Corriere della Sera». Nel 2003 diviene presidente della Rai. Attualmente è il direttore dell’«Huffington Post Italia» e conduce la trasmissione «In ½ h», che va in onda ogni domenica su Rai Tre alle 14.30.

[39] Per “accesso allargato” si intende una maggiore possibilità per le donne di entrare nel campo giornalistico.

[40] Nasce a Nocera Umbra nel 1944. È una sociologa italiana e si occupa prevalentemente dello studio di genere nel giornalismo: analizza posizioni e opportunità delle donne all’interno del campo della comunicazione. Altro settore dei suoi studi è quello riservato alle produzioni seriali televisivi. Dopo aver insegnato per molti anni presso l’Università di Firenze, è oggi una docente dell’Università Sapienza di Roma.

[41] M. Buonanno, Visibilità senza potere, Le sorti progressive ma non magnifiche delle donne giornaliste italiane, p. 6.

[42] Milly Buonanno individua quattro generazioni di giornaliste. 1) Le grandi emancipate: fanno il loro esordio nel giornalismo negli anni Cinquanta/Sessanta pagando prezzi altissimi per entrare in una professione prettamente maschile; 2) le politiche: arrivano nel giornalismo a metà degli anni Settanta e il loro ingresso coincide con l’apertura del giornalismo all’universo femminile; 3) le neo-emancipate: sono le giornaliste degli anni Ottanta, donne professioniste, competenti e motivate, nonché competitive e decise a farsi valere. Per loro il giornalismo diventa un vero e proprio lavoro, non più una difficile scommessa: la lotta per l’emancipazione ha permesso alle donne di poter lavorare anche in questo campo; 4) le ultime arrivate: sono quelle donne che arrivano nel giornalismo negli anni Novanta: si tratta di un gruppo eterogeneo che riflette l’aria di quegli anni: si sentono la disorganizzazione, il caotico e la varietà del tempo.

[43] M. Buonanno, Al fronte ma non sulla front page, in I problemi dell’informazione, pp. 491-492.

[44] È un festival internazionale che ogni anno, nella città di Perugia, ospita giornalisti italiani e di tutto il mondo che si rendono protagonisti di interessanti incontri in cui si dibattono i principali temi del giornalismo odierno e non solo: carta stampata, radio e televisione sono attive protagoniste. Nel 2016 il Festival ha festeggiato i dieci anni dalla sua prima edizione mentre l’undicesima si terrà sempre nel capoluogo umbro dal 5 al 9 aprile 2017.

[45] Giorgio Matteoli, laureato in Lingue Straniere, ha frequentato la Scuola di Giornalismo Radiotelevisivo di Perugia, diventando giornalista professionista nel dicembre 2012. Ha lavorato come stagista all’AGI, al quotidiano Il Tempo, alla redazione sportiva del Giornale Radio Rai e al Tgr Lazio. Scrive di temi sportivi sul sito Pensieri di Sport. Attualmente lavora a Tgr Rai.

[46] Osservatorio dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano.

[47] Nel saggio di Milly Buonanno pubblicato sulla rivista di I problemi dell’informazioni a dicembre 2015 si lamenta sempre una scarsa presenza di articoli firmati da donne nei quotidiani, soprattutto sportivi.

[48] Vedi capitolo 3.

[49] Termine con cui Rosanna Marani indica l’addetto alla sicurezza degli spogliatoi durante la conferenza al Festival di Perugia.

[50] Simona Rolandi durante l’intervento al Festival del Giornalismo di Perugia dell’aprile 2015.

[51] R. Marani, La testa nel pallone, p. 11.

[52] Ibidem.

[53] R. Marani, Una donna in campo, quarta di copertina.

[54] R. Marani, La testa nel pallone, p. 15.

[55] Centrocampista del Milan negli anni Settanta.

[56] R. Marani, La testa nel pallone, p. 13.

[57] Ivi, p. 14.

[58] https://lortodirosanna.wordpress.com/author/rosannamarani/.

[59] Si riferisce ai diversi scontri verbali avuti con gli allenatori Allegri, Mancini e Mihajlovic nei post partita durante la diretta di «Serie A Live».

[60] È la scuola di giornalismo «Walter Tobagi» con sede nel Polo di Mediazione interculturale dell’Università degli Studi di Milano.

[61] Si riferisce a domenica 18 settembre 2016 e al posticipo Fiorentina-Roma della quarta giornata del campionato di serie A. Simona Rolandi era inviata per «La Domenica Sportiva».

[62] Esordisce per «Tutto il calcio minuto per minuto» il primo dicembre 1998 seguendo un incontro di Coppa Italia, quello tra Udinese-Parma. La radiocronaca era di Livio Forma. A lei spettavano interventi dalla tribuna stampa.

[63] Nasce a Padova il 14 giugno 1976.  I suoi primi passi nel mondo del giornalismo li muove in radio prima collaborando con una radio locale, poi con «Radio 105» e «Radio Montecarlo». Dal 2000 al 2002 è a Mediaset, poi passa a Radio Rai e, infine, nel 2003 inizia a lavorare prima per SkySport, poi per SkySport24 come conduttrice.

[64] Collabora prima con alcune testate cartacee, dopodiché lavora per radio e tv private, finché non arriva l’occasione di entrare a Sky. Oggi lavora per Fox Sports.

[65] Nasce il 12 marzo 1938 a Roma. Giornalista e conduttore radiofonico italiano, entra in Rai nel 1968. Conduce per diversi anni «Domenica Sport». A lui spetta la decisione di far esordire una donna in una radiocronaca calcistica.

 

Informazioni su Rosanna Marani

@RosannaMarani Per sapere chi sono stata http://it.wikipedia.org/wiki/Rosanna_Marani http://www.storiaradiotv.it/ROSANNA MARANI.htm Per sapere chi sono...chiedimelo Il mio motto Possiedo da spendere la sola moneta del mio sono. Ho investito il mio ero e non so se il mio sarò, potrà fruttarmi l'interesse ad essere.
Questa voce è stata pubblicata in Dicono di me, Tesi di Laurea e contrassegnata con , , , , , , . Contrassegna il permalink.

Lascia un commento

Questo sito utilizza Akismet per ridurre lo spam. Scopri come vengono elaborati i dati derivati dai commenti.